IL corpo/ Lo straniante immemore – di Gabriella Landini

Per ringraziamento a quanti lottano affinché in ciascun attimo sia racchiusa tutta la vita. L’eternità dell’istante.

Per condanna di quanti con mano efferata si appellano al Protocollo per eseguire pratiche disumane d’irresponsabile crudeltà.

 

 

Il corpo- lo straniante immemore

 

Il tentativo di cogliere il corpo, nella frammentazione e nella sua totalità anatomica, nell’interno, nell’esterno, nella carne e nella psiche, mente, cervello, nella sessualità, nella nomenclatura delle parti e nella significazione simbolica delle medesime, è uno dei tanti modi in cui le culture hanno tentato e tentano con mezzi progressivamente tecno–moderni, dal disegno anatomico alla TAC, Total body, di cogliere e rappresentare l’irrappresentabile, ovvero il corpo, presunto contenere una essenza causale, assecondando un’ideologia arcaica superstiziosa che considera il corpo l’oggettivazione tangibile dove riscontrare le prove-segno della divisione del bene e del male, e del  fine primo e ultimo del senso della vita della salute e della malattia, della norma, della follia, dell’anomalia con annessa caducità, pena e relativa promessa salvifica, che trova nell’idea apocalittica la sua massima espressione. Il Giudizio dei Giudizi, a garanzia immortale. La rivelazione finale al termine del tempo e del mondo- materia nell’apoteosi del sacrificio planetario, egualitario e dunque giusto. E assecondando questa credenza  procedere all’accettazione dell’idea della vittima, del sacrificio, partendo dal proprio corpo, assumendo una credenza, rappresentandola, eseguendola individuando punti e organi  di fissazione del pathos, dell’emanazione patologica.   Il punto causa sui, del male nel suo propagarsi, la pazzia e il cancro come malattie emblemi  dell’incurabile e  con le  relative irreparabili demenze e metastasi, le prime  proliferanti, le seconde fondative, sempre rinnovate in mefistofeliche dottrine.

Il noi–corpo esiste inobiettivabile per eccellenza–il corpo è straniante, una catena il corpo fa il legame materiale delle parole–percepibile se non vivendo, inosservabile in quanto soggetto-oggetto tanto che nessuno di noi può memorizzare la propria immagine allo specchio, tranne scorgerne un tu e altro immemorabile, esposto al ritmo e al movimento, e dunque inimitabile, irripetibile, particolare e singolare, ma non esente dal contesto, ovvero dalla scena.  Ironicamente l’arte della copia, scimmiottando lo specchio, è l’arte di differenti originali. Il doppio, il triplo, l’infinito.

Ma lo specchio speculare, quello in cui la copia è ritenuta veridica, reale, portatrice di verità e non d’ironico riflesso, cui il potere trova la sua immagine “proiettiva” nel consenso idolatra populista, nell’approvazione sottomessa e insieme complice dell’attante schiavo, è l’immagine potente del “sapere” e “vedere–visione”, su cui si esercita tutta la speculazione sul corpo, fino all’attualissima “speculum finanza”, per un esercizio della morte come spauracchio rappresentato dall’esibizione del cadavere, ora orrido, caduto, vinto civile o in guerra (l’esibizione raggiunge anche il potente di regime: re, imperatore, dittatore, di turno, caduto, videato e fotografato quale esemplificazione del male, quale lo sono i vinti, oppure siano essi conservati in stato di mummificazione come i Faraoni egizi, quale esemplificazione del bene vittorioso immortale), come pure il cittadino ridotto in miseria, che muore di carestia, per fame, per mancanza di lavoro, considerata la sua vita sprecabile in nome della divinizzazione personificata del potente, Dux, Caudillo, Premier… salvifico e salvato dal sacrificio del suddito che solo a sprazzi è ritenuto cittadino. Personificazione del potere che può sacrificare i corpi dei suoi cittadini in nome (nome del nome; il nome metafisico), della sua sopravvivenza immortale a garanzia di supposti tutti, con la morte dei considerati “nessuno” come equivalenza priva di valore. Il corpo-parola di ciascuno ritenuto irrilevante e non come risorsa di forza ed eventualità di un’altra piega delle cose, un fare altrimenti. Se ciascuno di noi si facesse Odisseo, i necrofori legislatori sarebbero messi alla berlina, si troverebbero autoreferenti impazziti, incatenati nel loro isolotto al canto delle loro stridule sirenette.

Non senza sconcerto, leggo in questi giorni sui giornali la notizia che ci informa in modo contabile, che per salvare le aziende occorre distruggere il patrimonio intellettuale e sapiente racchiuso nelle mani dei lavoratori. L’impresa salvata per mezzo di morte del suo patrimonio umano e intellettivo? La madre –impresa salvata dalla morte dei suoi figli? E quando mai questa può ritenersi un’impresa culturalmente riuscita e non invece suicida? La salvezza passa attraverso il sacrificio (preso alla lettera) del corpo dei lavoratori. Moriranno di fame? Di sete? Di inedia? Loro e le loro famiglie? È per il bene della patria–impresa che cede di sovranità (e dunque della funzione del nome), per il bene della salvezza. La patria, la quale, esente da nazionalismi beoti, è semplicemente la lingua, che non può cedere alcunché senza perdere la favella: e chi perde la favella poi perderà anche il corpo nelle varianti di insediamenti storicamente noti come campi di lavoro, concentrazionari vari e schiavitù diretta e indiretta, e azioni quali : guerre, stermini, perdite e fallimenti. Cultura, lingua, corpo non possono mai essere ritenuti elementi obsoleti, asservibili, come se la specificità di ciascuno fosse sostituibile, remissibile, eliminabile senza catastrofiche conseguenze umane e culturali. Orrore privo di etica minima (la decenza del diritto) e persino di cristianesimo elementare (che decreta nel rito eucaristico, che quello di Cristo è l’ultimo dei sacrifici e ciò che sarà a seguire non sarà per emulazione, bensì in memoria e per ringraziamento …), nonché di pensiero intelligente. Ed è questa un’onta che travolge perfino la ragione stessa. Persino la loghia del discorso teologico cristiano razionale, che affida la riuscita alla gloria del corpo, alla resurrezione e non alla sua degradazione ed estinzione (si veda il testo La sessualità di Cristo). Dunque, per fare sopravvivere un potere di stampo romantico, di nostalgico idealismo hegeliano, alla maniera dello sturm un drang, privo di elaborazione post–bellica nazional­–socialista,–stile replicanti di triste replica – perché omisuicida nei suoi presupposti, occorre mettere in povertà fino allo stremo una intera popolazione definita “la generazione perduta” dei giovani  e a seguire di tutte le età, in terra  occidentale, europea e altrove, per determinare lo spreco totale, lo sprezzo, il dispregio della vita, il sacrificio sommo, assecondando le antiche, arcaiche, superstiziose, desolanti ideologie, del sacrificio del corpo che serve da ipostasi alla grammaticalità e spazialità delle cose,  e che notoriamente è preziosissimo qualora sia quello dei giovani: il valore più alto di una società, perché connessa alle sue sorti future, al suo avvenire.  Orgoglio supremo di ogni tirannide seminare terrore, dimostrare la morte inflitta per volontà del sovrano a elogio della sua immortalità relegata al nefas. Obnibilamento dei cittadini: credervi.  E, questi, ci credono fino all’inverosimile, fino al paradosso di ogni umano onore e decoro. Fino a non avvalersi della soglia minima del diritto, acquisita per lotte e sacrifici di storica comprovata dignità dei loro precursori-antenati e della loro tradizione. L’ignavia: il peggiore dei peccati, secondo Dante Alighieri, tanto che chi la praticava non lo si poteva condannare nemmeno all’inferno; una pestilenza dilagante, l’unica ravvisabile e priva di cura perché ottenebrata dal conformismo.
 
Quando parliamo di fame e sete di cosa crediamo che si parli se non del corpo-parola? Quando parliamo di medicina e ospedali di cosa crediamo di parlare se non del noi-corpo-parola? Quando si parla di morte di cosa crediamo che si parli se non del corpo- soffio del respiro, et verbum caro factum est?

E dunque, gli intellettuali che discettano sul corpo dove sono? Dove celano il loro scettro di lama insanguinata intrisa di perbenistico candore? Il corpo diviso dalla purificata anima, pronti a immolare il corpo(e inviare l’anima direttamente nell’Aldilà?-no, grazie), in nome di una ideologia opportunistica,  aculturale priva di ogni ratiocinium, persino di antica conservatrice logica formale. E non azzardo parlare di poesia o di arte, perché risulterebbe davvero inarrivabile per i totalitaristi pantocratici di qualsiasi risma, malcelati dietro abiti alabastrini, sbiancati dal rosso sangue di mano deresponsabilizzata, protocollare. Rosso sangue da protocollo, protocollari psicopompi.  I quali guardano con compiaciuta benevolenza le antiche vestigia di un ritratto nel bussolotto dei ricordi, fanno auspici aruspici con le loro reliquie magiche, prive di astrazione, di arte e di ragionamento. Perché sia chiaro, alla violenza dell’arroganza di potere onnipotente fa difetto anche in sommo grado la rationicinatio di scienza elementare, quella che richiede la responsabilità e il narcisismo della ricerca, dell’invenzione e del pensiero indipendente. Sconosciuti ai sentenziatori – penitenziari, figuranti di judizio finale i significanti: indulgenza, carità, grazia.

E saranno proprio costoro che prostrandosi inginocchiati, chiederanno ai posteri il tributo degli storici, per ritenersi, loro e la loro schiatta, comunque beati fra i santi. Onta e scempio dell’umana virtù, a ciascuno di noi tocca in sorte l’impegno, se non il diritto, di un ardire a testimonianza di vita, che è parola-corpo, nella sua affermazione assoluta non relativizzabile, incondizionata a ogni phisys che si erge a metafisica nekya.

 

Il ritratto del corpo

 

Il corpo diviso dal ritratto considerato quest’ultimo prerogativa dal volto, è una divisione discorsiva interessante, come se il corpo nel disegno anatomico non ricadesse nel ritratto e il ritratto non sfociasse in altro, nell’impossibile di cogliere sia l’io che il tu, esattamente come se il tentativo di cogliere la raffigurazione del corpo straniata non volgesse a un incommensurabile Altro, che non ha sede, luogo e spazio nel corpo, ma sfocia nel ritmo. Ci si ammala nell’adeguamento al logos, ci si cura nel viaggio narrativo verso altro e ci si trova guariti nella poesia, lingua altra del mythos per antonomasia.  E ciascuno dei nostri corpi ha connesso il volto, ciascuno è un caso di singolare specificità narrativa, così come ciascuno dei nostri cuori o fegati risponde in modo differente a quelle che vengono definite terapie.

La pretesa di separare il volto-anima-mente dal corpo, come pure dallo spirito è una proiezione sistematica del dominio sul corpo. Ogni dominio sa che dominando il corpo ne domina la parola. Senza il corpo non c’è parola, senza la parola non c’è il corpo. La sublimità dell’elevazione spirituale, (l’oltre – corpo) dell’anima-pensiero che passa attraverso la mortificazione del corpo è una convinzione assai radicata.  Ma il corpo è sempre spirituale, cioè si situa sempre “oltre” la presa onnicomprensiva della misurabilità conoscitiva, e se l’arte ne ha tentato la riproduzione attraverso la  figurazione plastica e anatomica, questo comporta che anche l’invenzione artistica ne abbia suffragato una supposta realtà e verità mancando l’Altro, che si manifesta nella traduzione, che della lettera tiene la sua alterazione, il significante colto in una traslitterazione assurda e abnorme. E la morte, Altro, alterità inconciliabile, imperscrutabile a ogni approccio gnostico.

L’anima primato sul corpo, la mente entità dominante sul corpo, come si ritiene da Platone alla telematica.  Corpo animalesco e demoniaco, corpo imprigionato, corpo tomba, secondo la canonica scolastica e inquisitoria, da reprimere nella sessualità, esposto alla maschera della nudità, diviso da una netta contrarietà fra parti dello stesso, quelle nobili e quelle vili, contraddizione manifesta, quello denominato il “conflitto interiore” per antonomasia, che non può eludere nella morte, il disfacimento e che risolve l’elusione dell’ altro con una proiezione cosmogonica di ciò che è al di qua, con ciò che è al di là per affermare la continuità del tempo. Beffa del ritratto dunque, illusione della permanenza dello spirito identitario, specchio dell’anima che non vuole esser corpo, ma che corpo rimane come tutto il resto della membra – carne, che  rimane indefinibile, indecifrabile, impersonificabile e oscura alla definizione categorica, trasmutabile nel suo mutare, in altro. L’assoluto Altro. Alterità assoluta, così la morte non si lascia definire e neppure catturare nel compromesso del cerimoniale feticistico della visione sezionata del cadavere. La morte resta assoluto ignoto.

Cantonata del disegno anatomico che inventa lo stilema estetico del canone ortodosso della percezione immaginifica. Non possiamo dire il nostro corpo in quanto entità cosale se non per via metafisica. E dunque in sordità, privi di ascolto del corpo e in totale adeguamento disciplinare dello stesso alla sistemica logico discorsiva imperante, che vanta protezione e sicurezza, gestione della vita tramite la morte.  Scacco della fotografia che scambia il significante per sinonimia e omonimia, non lascia il corpo nell’indecifrabilità arbitraria della traduzione acustica, dove altro interviene per effetto della luce, ascoltando. La luce diviene illuminazione realistica, spiegazione, fonte di verosimiglianza, perde l’ascolto e la musica, perde la piega inudita in cui l’altro si insinua come traduzione e risorsa esposta all’imprevedibile, all’inspiegabile. E la descrizione metafisica è parte integrante della nostra cultura sia essa pagana, religiosa o scientifica, da millenni.

Il corpo nella metafisica procede per “verosimiglianza” (la verosimiglianza è la metafisica del vero) e in questa pretesa di essere la rappresentazione del vero, della verità, ritiene applicabile la sinonimia, salta la traduzione e non fa intervenire Altro. Nessuna parola è verosimile e ciascuna parola non può evitare il malinteso, il qui pro quo, la traduzione.  Letteralizzando le cose, visionandole e revisionandole, osservandole e contemplandole ora un sacco, ora una capsula ora un tempio, ora mummie plastificate[ Body Worlds – Il vero mondo del corpo umano di Gunther Von Hagens] sacralizzandole e superandole per staccarle  dal dire e dal fare, il corpo diventa mortale- quindi l’oggetto-cosa che può essere amato  o odiato, avvicinato o allontanato, mantenuto o eliminato,  redento e la scena diventa malefica, quindi il sintomo può essere estinto.

Il sintomo narra la soglia, l’accento posto su un passo, un salto, un punto di sospensione. Un punto che interroga, interpella, chiede udienza e ascolto, reclama l’impraticabile del corpo, si struttura nel linguaggio effettua l’involontario e per questo non si fa segno limite, tantomeno senso e significazione; il sintomo è un equivoco  che richiede traduzione, l’intervento di altro, per aprire a una domanda. Tanto da non permettere che la terapia possa essere scambiata per cura. Nelle seduta sciamanica  il corpo non è un insieme di organi, non è frammentato nel suo interno, non c’è un dentro, un fuori, bensì è un corpo collocato su una scena  collettiva. Il disagio si situa a livello simbolico del racconto corale che narrando oltrepassa e integra il disagio in un altro narrato. Non così per Cartesio secondo il quale il corpo «altro non sia se non una statua o una macchina di terra che dio forma espressamente per renderla, per quanto sia possibile, simile a noi, in modo che possa dare a essa, all’esterno, il colore e la figura di tutte le nostre membra, ma anche che ponga all’interno, tutti i pezzi che sono richiesti per afre in modo  che essa cammini, mangi, respiri, e infine imiti tutte quelle nostre funzioni che possono essere immaginate procedenti dalla, materia  e dipendere soltanto dalla disposizione di questi organi.»

Per noi la terapia è un ristabilimento di condizioni precedenti, di ripristino di condizioni ritenute normali, omologate a uno standard.  Il corpo ritenuto sempre imperfetto e mancante va incessantemente terapizzato per tenerlo nello standard. Applicare al corpo il disciplinare e il sacrificale, disporlo nella mnemotecnica e nella mnemomacchina e usare il cibo come psicofarmaco e il tempo della parola come finito. Ma ciascun corpo nasce in una perfezione originaria ed ha un equilibrio particolare non omologabile, ragione questa per cui nessuna terapeutizzazione all’interno della nostra cultura sortisce l’effetto di guarigione, perché guarire implicherebbe un radicale mutamento e non un ricominciare ab origine. Impossibile guarire con interlocutori– personaggio della propaganda dei nessi causali della malattia, nonostante i mezzi  istituzionali a disposizione dell’apparato di medicalizzazione.

Il corpo – parola, l’indivisibile, che metafisicamente abbiamo diviso, spezzettato all’infinitesima cellula, al singolarissimo neutrone, inoggettuale, che volge una sapienza discordante, inattuale e volitiva al sapere dello scienziato, è il corpo incorruttibile, non sottoposto pertanto al sacrificio. Il corpo destinato a una vicenda di gloria in cui le definizioni di bello, salute, integrità, immunità, non possono concedere nulla al compromesso sociale. La vita che ci è data, ed è tale se c’è il corpo, è sacra, unica, da non sprecare in nessun istante. Alla vita non c’è alternativa, che ognuno sia libero di morire è l’ideologia che ci viene raccontata. Ciascuno di noi è invece libero di vivere nel valore assoluto della vita.

 

 
©Gabriella Landini