Liberty- di Francesco Saba Sardi

In copertina- Café Tommaseo – Trieste

Liberty

 

Tornare, ritorno. Per lo più d’inverno. Abito infatti una dimora opportunamente iemale,necessariamente notturna,casa che è vetusta dama inferma alquanto, però ben protetta da camini scolpiti e stufe di maioliche marroni e verdi compilate da piastrelle vegetate di tralci, viticci, corolle, forme onnipresenti su mobili e suppellettili, rampicanti su grevi tende  e scure tappezzerie, sbocciate sulla cornice di legno rosa, di rosa scolpita delicatissime colorate di rosa le rose, di tenero verde gli steli, nel vetro sospesa l’immagine della fanciulla tutta pizzi e collane. Qui non sono turbato dagli eventi che là fuori imperversano, qui posso fare offerte rituali ai molli velari della notte, qui mi depongo chiuso entro il calore come la cicala nell’ambra, imbalsamato, clorato d’oro, sepolto nel ventre luminoso dell’eternità. Le dolci pinne d’una fiamma amica mi accarezzano. Immobile, corro nella notte candida di deserti fatti di neve e ululati, e il mio sicuro giaciglio, o lieta frode!, è sospeso imprendibile, e io-nonio tutt’uno in esso, sull’onda impietrita dei beffati rischi delle tenebre. Qui non si fanno udire gli osceni crepitacoli adolescenziali. Perché questa casa è una inviolata matrice, vigilata la soglia da guerriere-zie, guerriere-domestiche, guerriere-nonne armate di mestoli, palette e forchettoni. E poi la casa si leva all’angolo di una strada che porta il rasserenante nome di un vescovo di questa mia città, in seguito fatto addirittura papa.  Se mi tolgo un istante- un breve, deliziato attimo- dal torpore, odo la bora precipitare pesante dalla cresta di fossili calcari e magri arbusti che sovrasta e invano minaccia a oriente questa mia solida, ricca città, e porta messaggi  in lingue sconosciute, nere selve ercine, sarmatiche steppe. Vento vischioso, gelido sciroppo irto di lame urlanti, tinnanti, che vorrebbe entrare qui dentro, avvolgermi e rapirmi, ma ne è impedito, intimidito, domato dal pacificante buio del grande appartamento che si svolge tutt’attorno a u cortile di dure lastre di sasso dove la bora trasvolante, superati senza più fiato i tetti, si getta esanime, moribonda. Profondo alveo di austroungarici silenzi lungo i corridoi senz’echi, nelle camere imbottite come celle di pazzi- e sì, un tentacolo di vento si è intrufolato, solleva indiscreto il tardo lembo di una tovaglia, una gonna di lattato lino, a scoprire una gamba ben tornita, ma il fuoco ruglia nelle stufe, il tentacolo è ricacciato dalla brace che veglia nel camino accanto al quale respira lento il mio letargo, e che subito si scrolla, risuscita, insorge, gesticola  a scacciare la tentata insolenza del ladro notturno. Sono al sicuro.

Non lo sono più nella bella stagione quando, uscito dal bozzolo, volo al giardino pubblico che si spalanca e dirama proprio di fronte alla via dove abito e che si prolunga, al di là di un viale alberato, in una strada in salita sbarrata da due pilastrati gendarmi di ghisa che reggono con ferma mano una gran sbarra orizzontale di rugginoso ferro, a spigolosa sezione rettangolare, contro la quale si infranse l’imprudenza di un garzone macellaio che, chino sul manubrio,scommetteva di passare al di sotto, immaginario contrabbandiere; e fu così, scoperchiatone il cranio, giacquero lui,il cranio, giacquero lui, la sua bicicletta, sanguinolenti  tocchi  di bella carne fresca, cervello sgusciato ancora palpitante, tra esclamazioni di raccapriccio, non urlate, però: la mia città predilige la compostezza. Non so  se anche nelle periferie  e nei quartieri operai.

Giardino vastissimo, per me nano. Segreti di fitti verdi  che  possono ospitare ambigui sussurri, né manca una collinetta dalla quale , a innocua emulazione del folle garzo netto, scendere in apnea sul monopattino cigolante. Busti di accigliati maestri di virtù, di norma barbuti, ammonenti da prati ben rasati, capolinanti bronzei dall’ombra  di educati ciuffi fioriti. Un laghetto  di acque invetriate, senza fondo, travalicato da un ponticello di balaustre cementizie che fingono nodose recinzioni da pasture- ma a chi potrebbe passare per la mente di scavalcare e tuffarsi? Impossibile annegare fra tartarughe, compositi sassi dotati della facoltà di galleggiare o  immoti sulle sponde, che al tonfo scivolerebbero, trascinerebbero impercettibilmente fra anatre che mordono l’acqua idrocarburica e perciò nutritizia, balbettando i becchi che poi levano in atto di adorazione verso la sovrannaturale presenza del cielo arroventato, occhio matto,una perlina di profilo, possedute, rituffano la testina-pompetta selvatica, ribevono,si varano, solcano sotto i candidi archi colli di due cigni, enormi al paragone, la zampa a spall’arm sotto la lucida plastica dell’ala immacolata, spalancata per lo stupore. E io corro, mi sfianco, affanno, fuggo, mi sottraggo agli ignoti fremiti  che vogliono spingermi a vedere e capire. Potei giocare ,ma con chi? Ma non li vedi i vestiti alla marinara, così ben pettinati, il bavero blu con le stelline bianche sommosso appena, nell’inseguire che fanno il cerchio spronato mai d furia, appena con deboli schiocchi dei destri colpetti di pàndolo, così lo chiamano, sì che orbiti impettito sul filo della gravità, troppo assorti nel  loro giro del mondo in pochi vialetti. Avrei voglia di dare loro lo sgambetto, vorrei essere brusco, manesco, vendicatore. Farla pagare, e cara, a colei che mi infilava i santini sotto il cuscino quand’ero ancora tanto piccolo e avevo male all’orecchio. Olio caldo versato nel foro che comunica direttamente con il cervello. Zaffo giallo. Materia? Marciume?

Si è seduto  su una panchina, impersonando l’indifferenza. Che comporta mano davanti al sorrisino, per renderlo più palese.

Il mondo lo travalica, neanche fosse alata, quale appare in riassuntiva proiezione tracciata dal gesso sull’asfalto, scacchiera di caselle scrupolosamente annotate, cioè l’inferno, la minuzia dei doveri e del calcolo coronata e redenta a nord da un settore di cerchio: il paradiso senza numeri. Come se comunque non fossimo perigliosamente sospesi nel vuoto, nel cielo che ci avvolge. Preghiera di replicanti, saltelli su un piede solo, l’altro rattrappito, oscillante, e con il primo calettare millimetricamente un sassolino- piede quasi nudo, esile, come tutta lei- per portarlo nell’orto concluso, alla salvezza, bei piedini rigati appena dalle striscette dei sandali, guai anche per lei invadere i confini, non c’è remissione per nessuno.

Infastidito dalla delicata demiurga, dall’inerzia della costanza assorta ma distesa, perduta nella tenacia della superfluità. Infastidito dall’imponderabilità del vestitino quasi assente attorno al corpo da nulla, di sfumature verde pallido e rosa. Offeso dagli occhi chini vietati da lunghe ciglia palpitanti, lieve sussulto a ogni scatto; dal labbro inferiore morso da dentini troppo perfetti, riportatile dal topino che li ha trovati sotto il letto, senza nemmeno prelevare l’obbligatorio obolo della monetina ma anzi scambiando quelli di latte con altri nuovi, di fermo avorio. Sgomentato dal profilo senza errori che sfiora il naso, mento, guancia appena accaldata.

Basterebbe, il labirinto, percorrendo in linea retta, in fin dei conti non è che un gomitolo a due capi. Troppo facile, però, ignorarlo e svolgerlo: i suoi pensieri- quelli di tutti- seguono percorsi tortuosi, e il sassolino è il prezzo da pagare al guardiano della soglia .Uno-due. Ancora altri, tanti numeri, la solita infinità, dunque? Ne verrò fuori? Uscirò viva?

Stupido gioco  incentrato sulla lentezza.  Modello che configura  un avvenire di reiterazioni e sopportazioni. Da infrange. Sbarre da sfondare. Bambina ma già vecchietta.Tutta non parole sostituite dal gesto imperioso. Un balzo lo pianta nel mezzo del diagramma, i pugno un sasso di ben alte dimensioni. I suoi saranno zampetta menti  ben più decisi e precisi, e non ci sarà un altro a insegnare, riprendere, deridere, perché padrone del gioco, non sbaglierà, penserà due, quattro, cento cose assieme. Appena li sfiora col piede proibito il suolo, già lui a berciare, darle della scema, guarda invece come si fa, non sei buona a niente. Ha troppo ben riavviati i capelli biondi fermati da un nodo di un rosa appena più intenso.  Vien voglia di tirarle il ciuffo.

Ma cosa gli ho fatto? Ma perché’ Non lo guarda neppure, ma per poco non ha posato il piede proibito, e il calcetto che dà al sassolino è troppo energico, lo fa finire fuori dai limiti dell’inferno, nel nulla.

Stupida, stupida! E gliela tira, quell’insolente coda di bestiola che non si arrende, che ha ripreso ad arrancare, sempre a ciglio basso, a bocca serrata, senza mordersi il labbro.

Si è fermata su un piede solo, adesso, e lo guarda, a lungo, spalancandogli in faccia occhi imperlati.

Un altro strattone alla coda ingiuriosa non gliela leva nessuno.

Abbassa il piede del rifiuto, impalata un istante, poi la sentenza: con te non gioco. Via.

E allora dovreste vederlo, lui: le corre dietro, implorando: perché? Perché non vuoi giocare? Cosa ti ho fatto?

Cerca di trattenerla per un braccio.

Si libera, non con uno strattone. Semplicemente guardandolo in un certo modo.

Toglie la mano.

Sparisce per un viale laterale, si rifugia dietro il vetro, tra le rose e gli steli di legno di rosa, ad appesantirsi di trine inamidate e perle traslucide.

Torna indietro, torna, non ti tirerò più i capelli. Macché. Solo nel giardino, tutti scomparsi, ora di chiusura, custode sull’uscio del padiglione dal tetto erto e grigio, aggrondata minaccia.

Ho attraverso il giardino e la via che lo fiancheggia, imboccato quella che porta al sicuro, alla dimora dove finisce l’estate. E ormai ho deciso: crescerò, non tornerò più nel giardino, sarò un uomo fatto, in piena mattina farò merenda al buffet, mangerò grosse salsicce condite di senape gialla e cren che vorrò grattugiato in eccesso perché meta pizzicori nel naso, acute punture alla nuca, lacrime negli occhi: mi scolerò una birra, passandomi il dorso della mano sulla bocca. Starò davanti a un bar, su un angolo, il culo appoggiato alle catenelle sull’orlo del marciapiede, dove il semaforo passa al verde e passano allora donne da sbirciare, giudicare, disprezzare con l’approvazione di altri giovanottoni atletici, di ciuffo protervo o biondi crani rasati, e la città la interpreterò in maniera ben diversa, aggiungendo di mio alla nebbia di sospetti e invidie, rancori, ambizioni, al rigurgito acido delle brame.