Il richiamo- di Lisa Rampilli

 

 

Il richiamo


Credevo fosse perdere.

Si fanno molte cose. Cose come andarsene, scomparire, riapparire. Fare il giro, ritornare.

E’ la fame. E’ Cacciare. Camminare di notte, mangiare dall’immondizia.

Digiunare, bere poco e male. Perdere liquidi e sentirsi sciolti. ricreare liquidi e riperderne.

Ridere soli affacciati a un balcone.

Quando ero piccola andavo dietro una colonna per spiare, raccogliere briciole. Farmi vedere da lontano da vicino da lontano. Caddi anche dal treno, ci passai sotto o lo rincorsi disperatamente. Non ricordo. Ma è lo stesso.

Come vedi, è sbagliare completamente, tornare indietro e inciampare. Pretendere di riposare, a penzoloni, legati per una caviglia a una corda.

Ho piegato più volte i vestiti per fare le valige, spiegazzato fogli.

E’ veloce ma… anche fare movimenti lenti, che non c’entrano: prendere un martello, metterlo lentamente in borsa senza accorgersi. Lentamente sì, pensando ad altro.

La notte mangiare confetti rimasti per terra davanti a una chiesa. Tagliare la testa al toro e poi cercare di rimettergliela, ostinatamente. Insanguinata.

E quando spendevo miliardi per un taxi?

E’ come abbaiare con fuori i denti, poi buttarsi in acqua per non essere mangiati.

Pregare a vuoto. farsi un bagno di sudore. Provarle tutte per farsi guardare.

Ma è un richiamo. Muoversi verso, entrare nella foresta, la meravigliosa e devastante foresta e andare verso il lago. Dormire in fondo al lago. Protetti da un guardiano: un uomo nero e oro. Non lo vedi chiaramente, ma c’è.

Smettere di ragionare per immagini, cominciare per odori.

Adesso, ora che l’ho attraversata, devo solo aspettare. Aspettare un serpente che per miracolo mi trasformi in un altro serpente; aspettarlo la notte e vederlo entrare da sotto la porta della capanna. Basta casa, voglio una tana in un buco scuro e asciutto. E poi dormire, attorcigliati, due serpenti sulla spiaggia.

Ciò che ho scritto su questo foglio è il sunto di quello che ho vissuto finora. Probabilmente quello che avrò ancora da vivere me lo farà accartocciare e gettare via, ma avevo buttato giù queste righe così, dopo l’incidente e dopo quell’apparizione, in un momento di pausa del nostro cammino. Mi chiedo spesso se il senso della musica, delle canzoni, non sia per gli esseri umani lo stesso che ha per gli animali il lamento, il richiamo degli uccelli in amore.

Un’automobile cade da un cavalcavia. Non so come sia stato possibile. Io c’ero. Anzi, ero su quell’automobile con un pessimo amico, guidavo io. Lui non sa guidare, ha anche millantato di saperlo fare; come sempre inventa storie che, guarda caso, esaltano le sue capacità. Ma guidavo io.

Era di notte, passavamo sopra e in mezzo alla città. E gli occhi ci facevano male per via delle luci gialle o arancioni.

Ma quelle non sono semplicemente luci nella notte. Mi assalì questo sospetto: sono buchi, o meglio squarci, in un’atmosfera disumana. Sono come il sangue incapace di sgorgare in forma liquida (sarebbe troppo compromettente) e che lampeggia in forma visiva e velenosa.

Non ricordo come sia andata, ma a posteriori sembra tutto abbastanza ovvio: la pressione che sale, le orecchie tappate, la velocità aumenta; fuori come un ululato collettivo di attesa, e infatti la macchina ha sbandato ed è caduta giù. C’è stato molto fumo, caldo e soporifero e io, come uno spettro, ho attraversato senza dolore l’abitacolo e la portiera. Sono rimasta sospesa in aria per un po’, trovandomi poi a constatare dall’alto del cavalcavia un incendio e uno scoppio.

Giù nella città, vicino a una piazza vuota, l’automobile bruciava gracchiando qualcosa. Il crepitio era di carta di cioccolatini nel camino. Ma un camino freddo.

Alla fine è stata inglobata da altri metalli, fusa con tutto il resto, ed è tornata a far parte di quella “roba” che non so come chiamare altrimenti.

Non posso ritenermi completamente salva, infondo, non ho provato che tristezza. Ma anche dolore. Del mio amico so solo che mai più vorrei rivederlo, che tutto quello che resta nel mio ricordo sono i suoi occhietti azzurri e ipocriti, ma sono sicura che si sarà salvato la pelle.

Non c’è una morale, è tutto andato come previsto. Tutto è tornato a sciogliersi in quella fucina buia, e i bagliori delle fiamme illuminavano a intermittenza profili di oggetti, resti di palazzi o altro.

Il mattino dopo c’era un sole cocente e avevo come l’impressione che quel posto non fosse poi così sconosciuto. Cominciavo a orientarmi. Avevo individuato un sentiero lungo e stretto che da un lato crollava in un burrone, ma un burrone ordinato. Infatti sotto c’erano le rotaie di un treno veloce e basamenti di palazzi che vi si affacciavano.

Se prima il mio obiettivo era raggiungere l’università, adesso avrei pagato qualunque prezzo per una fontana di acqua limpida e fresca. Avevo sete e bisogno di lavarmi.

Ho cominciato a camminare per il sentiero e affondavo in quello che credevo fosse asfalto. Erano cumuli di spazzatura. Tutto era spazzatura. Un’immensa distesa di strati e strati di plastica gomma e detriti, nella quale il sentiero battuto era vagamente riconoscibile e i lembi di sacchetti neri, cotti dal sole, erano sfrangiati e penzolanti sul ciglio del burrone ordinato.

Non c’era odore. Eravamo già oltre la soglia di decomposizione. Camminavo su questo tappeto. Arrancavo dal caldo.

In giro non c’era nessuno, possibile? L’aria tremolante da deserto. Poi stanca, mi sono seduta a riposare alla minuscola ombra della punta un tempietto di pietra, interrato, che spuntava dagli strati di immondizia. Un’immagine sacra irriconoscibile, ma almeno intorno qualche montagnetta sulla quale sedermi.

Allora vidi un uomo.

La sensazione non di averlo incontrato, ma di averlo ritrovato, è il segno con il quale decifrerò un giorno l’origine della mia scelta. Camminava piano, con un cane dalla foltissima pelliccia grigia, arruffata e sporca, forse ferito a una zampa, e comunque vecchissimo.

L’uomo era altrettanto logoro, con una giacca strappata, vestiti sudici impregnati di sudore e una bottiglia vuota in mano. Poteva sembrare un pescatore? Un ubriaco? Le scarpe gonfie e rattoppate con dello scotch. Un anellino d’oro a un orecchio.

Ma quell’uomo era bellissimo. Intuivo che doveva esserlo stato ancora di più e che probabilmente lo stadio in cui si trovava era una deriva irrecuperabile. Ma andava avanti con il suo enorme cane ferito.

Forse mi deve avere fatto un cenno o qualcosa, ho sentito un’inspiegabile e profonda familiarità. Ho anche cercato di chiedere, di parlare, sperando mi portasse alla fontana. Ho accarezzato il cane. Lui sorrideva di profilo, ma non mi ha mai detto una parola: andava solo avanti lentamente, strascicando i piedi.

Cosa potevo fare? Gli sono andata dietro, era l’unica cosa e la più naturale. Non mi sono domandata nemmeno perché, ma ho scelto di unirmi alla sua marcia. Andare avanti.