Biodiversità alimentare – Un giorno da leone o sette da giraffa- di Silvana Galassi

Tratto da Un giorno da leone o sette da giraffa, Erikson Live, 2012.

La preparazione del cibo, forse più d’ogni altra espressione della creatività umana, è un forte segno dei tempi. C’è chi, come Giancarlo Signore [1], Massimo Montanari [2] Felipe Fernández-Armesto [3] ha studiato la storia dell’alimentazione individuando un percorso parallelo a quello che ci è stato insegnato sui banchi di scuola che considera il cibo come una possibile chiave di lettura degli avvenimenti.

Del resto, la sola storia del pane raccontata da Matvejević [4] ci fa capire quanto sia stata importante per l’uomo la stanzialità e come la fantasia sia stata la vera risorsa che ha reso appetibile un alimento di per sé così poco saporito.

La geografia del pane è altrettanto interessante e non può prescindere dalla sua storia. Naan, roti, dosa e chapati, che raccolgono i sapori e i profumi dell’India, sono il frutto di pratiche millenarie di cottura in forni tandor o su piastre alimentate dal fuoco di legna. La baguette francese si fa risalire alle campagne napoleoniche quando le pagnotte, originariamente rotonde, vennero allungate per facilitarne il trasporto. La preparazione delle tortillas messicane, confezionate con il mais, risale agli Azechi anche se il nome attuale si deve sicuramente ai conquistadores.

Percorrendo la nostra penisola, incontriamo ancora forme e sapori di pani che sono l’emblema di una regione, di una città o, a volte, di un singolo paese. La “coppia” ferrarese, il pane croccante con le corna, caratteristico di quella sola zona d’Italia, deriva da una sperimentazione imposta ai fornai dai legislatori della corte estense che nel XIII secolo dettarono norme di confezionamento rivolte a migliorare la tracciabilità e la conservazione del pane.

La capacità di sfruttare nel modo più creativo ogni cosa che poteva essere considerata commestibile ha permesso alla nostra specie di colonizzare tutto il Pianeta, utilizzando al meglio le sue risorse. La grande biodiversità alimentare che caratterizza i popoli della Terra è il risultato di un lungo percorso di evoluzione culturale fatta di sperimentazioni “sul posto” e di scambi con altre popolazioni. Basti pensare all’influenza della scoperta del Nuovo Continente sull’alimentazione dei popoli europei. Non esisterebbe il quadro “I mangiatori di patate” di Van Googh e avremmo dovuto fare a meno della pizza se Cristoforo Colombo non fosse accidentalmente sbarcato in America.

Mentre le spezie sono rimaste a tutt’oggi patrimonio dell’Oriente, molte specie vegetali e animali provenienti dal continente americano sono state trapiantate con successo e ora caratterizzano la dieta delle popolazioni europee. I mangiatori di patate e quelli di polenta erano probabilmente inconsapevoli di nutrirsi di cibi esotici ma ora possiamo apprezzare il contributo degli scambi commerciali alla biodiversità alimentare di cui disponiamo.

Viene da domandarsi, quindi, per quale motivo un effetto collaterale della globalizzazione, che ha accorciato incredibilmente le distanze tra i continenti, sia stato quello di omologare le abitudini alimentari, cancellando in pochi anni il percorso evolutivo di millenni.

Credo che la causa principale sia stata l’industrializzazione della filiera di produzione, conservazione e trasformazione degli alimenti. La “Rivoluzione verde”, che a metà del secolo scorso sostituì le coltivazioni locali, aumentò le rese dei raccolti e permise alla popolazione umana di crescere in modo esplosivo determinandone il raddoppio nella seconda metà del secolo scorso. Ma ha anche distrutto gran parte della biodiversità vegetale che consentiva a specie meno produttive di resistere ai parassiti e di crescere nei climi meno favorevoli all’agricoltura intensiva. La “Seconda Rivoluzione verde”, fondata sull’introduzione in agricoltura di specie geneticamente modificate, rappresenta un ulteriore tentativo di violare i limiti imposti dalle variabili ambientali agendo direttamente sul codice genetico che modula i caratteri delle specie.

“Gli stabilimenti per la lavorazione delle carni furono le prime industrie americane a sperimentare la catene di montaggio”[5] anticipando le fabbriche automobilistiche. L’industrializzazione delle produzioni animali, che ha ricadute enormi dal punto di vista ambientale [6], condanna gli animali di allevamento a condurre una vita fatta di privazioni e sofferenze.

Le tecnologie ci hanno catapultato nell’Antropocene , termine coniato negli anni ottanta da Eugene F. Stoermer e reso popolare dallo scienziato Premio Nobel Paul Crutzen, per definire l’era contemporanea. L’era attuale è caratterizzata dalla straordinaria importanza della nostra specie rispetto a tutte le altre che popolano la Terra. Basti pensare che le azioni umane sono la causa principale dell’alterazione della composizione dell’atmosfera terrestre e della riduzione della biodiversità. In un mondo in cui il rispetto della Natura sembra un retaggio del passato, la conservazione e la trasmissione delle antiche colture e culture è una scomoda eredità che resta appannaggio delle popolazioni più povere del Pianeta. I villaggi rurali del Terzo Mondo, troppo isolati per essere raggiunti dalla nostra “civiltà” o troppo poveri per accedere ai mezzi di produzione necessari per attuare l’agricoltura e la zootecnia industriali, devono la loro sopravvivenza alla trasmissione di antichi saperi.

Mentre nel Primo Mondo la produzione e la preparazione degli alimenti hanno preceduto o seguito il modello industriale, nei villaggi rurali dell’Africa sud-sahariana si coltivano ancora le poche specie autoctone in grado di crescere nei climi semi-aridi e le donne insegnano alle figlie a riconoscere le piante commestibili nella brousse. La caccia e la raccolta della vegetazione selvatica integrano le magre risorse provenienti dalle pratiche agricole. La maggior parte di quelle essenze vegetali resta sconosciuta agli abitanti del Primo Mondo che non hanno mai considerato con interesse la cultura gastronomica dell’Africa nera [7].

Tuttavia c’è chi ritiene che l’epoca del cibo industriale si avvicini al tramonto. Dal mondo dell’arte emerge l’immagine del barattolo della Campell’s soup come un’icona postmodernista e da alcuni anni una scuola di pensiero auspica la necessità di salvare gli endemismi, di accorciare la filiera alimentare, di tornare ai cibi dei nostri padri. I cultori dello slow food si oppongono allo sfruttamento umano e ambientale dei fast food e un numero sempre maggiore di consumatori si riunisce in gruppi di acquisto e consumo sostenibili, convinti che la biodiversità debba essere difesa soprattutto con i gesti quotidiani e non solo adottando un lupo o una balena.

Gli ecologi misurano la biodiversità con un indice preso dalla teoria della cibernetica, una scienza la cui scoperta secondo Gregory Bateson rappresenta “il boccone più grosso che l’uomo abbia strappato dal frutto dell’Albero della Conoscenza negli ultimi 2000 anni”[8]. La cibernetica permette di studiare sistemi complessi: dai computer alle società umane, dalla cellula agli ecosistemi. Permette di gestire la complessità e l’incertezza di questi sistemi. Il vero problema è quello di accettare una volta per tutte che noi viviamo in sistemi di questo tipo e che è arrivato il momento di ammettere che il metodo scientifico che ha dato origine all’Antropocene è troppo riduttivo per comprendere e gestire i sistemi complessi. Se continuiamo ad applicare al nostro Pianeta il metodo sperimentale di “osservazione controllata” proposto da Bacone e Galilei saremo costretti a pagare le conseguenze del fatto che il laboratorio in cui eseguiamo i nostri esperimenti è in realtà la casa in cui abitiamo.

Gli ecologi hanno dimostrato che la Natura è in grado di fornire i suoi servizi solo a patto che venga mantenuta la biodiversità degli ecosistemi e che il successo della nostra specie si  basa sulla nostra capacità di adattamento alla variabilità spaziale e temporale delle condizioni ambientali piuttosto che sulla capacità di forgiare il mondo in cui viviamo.

Alla fine del secolo scorso la popolazione umana ha raggiunto e forse superato la capacità portante della Terra. Per la sopravvivenza della nostra specie in una condizioni di pacifica convivenza dei popoli è necessario attuare un cambiamento radicale del pensiero filosofico che ha portato alla globalizzazione. Secondo Bateson sarà proprio la cibernetica lo strumento che potrà permetterci di “conseguire una nuova e forse più umana filosofia, un mezzo per cambiare la nostra strategia del controllo e un mezzo per vedere le nostre follie in una prospettiva più vasta.”[8]

[1] Giancarlo Signore Storia delle abitudini alimentari. Dalla preistoria ai fast food. Tecniche nuove (2010)

[2] Massimo Montanari La fame e l’abbondanza. Storia dell’alimentazione in Europa. Editori Laterza (1993)

[3] Felipe Fernández-Armesto Storia del cibo. Bruno Mondadori (2010)

[4] Predrag Matvejević Pane nostro. Nuova biblioteca Garzanti (2010)

[5] Jeremy Rifkin Ecocidio Mondadori (2001)

[6] Silvana Galassi Un giorno da leone o sette da giraffa. Elementi di ecologia della nutrizione Erickson Live (e-book) (2012)

[7] Ettore Tibaldi Cibo d’Africa. Percorsi alimentari dal Sahara a Soweto. Slow food Editore (2006)

[8] Gregory Bateson Verso un’ecologia della mente Adelfi (1977)

 

Un giorno da leone o sette da giraffa