Sospese condominiali – di Mariangela Venezia

La terra vibra, si scuote, si aggiusta. Emana, rilascia, si strappa nelle pieghe del lenzuolo, si stiracchia sotto il mio cuscino. Ondeggia tra le mattonelle del pavimento, una voce, un canto che mi chiama. E mi sveglia. Non riesco più a riaddormentarmi, dopo che le viscere della terra mi fanno drin nell’orecchio, mi metto in ascolto del brusio. Esco sul ballatoio, io e la crosta ci facciamo lunghe chiacchierate sull’improvviso disordine che ha preso le piante del balcone. Sul caos che fanno i boccioli in una primavera confusa e ballerina. Parla continuamente, mi racconta di scricchiolii magmatici come di un ritmo a cui danza la natura. Io ascolto, strappo una foglia secca, bevo il caffè.

Lei si stropiccia gli occhi ancora pieni di notte mentre scende le scale. Compare, scompare, vedo l’ombra sento il respiro, mi sporgo, mi scompongo, allungo il collo. Un tempo interminabilmente vuoto in cui non sento non vedo non intuisco nemmeno. Apnea. Eccola, risorgo, rifiato, risale le scale con in mano la tazzina vuota, la camicia da notte si impiglia nei gerani dei ballatoi altrui. L’androne la inghiotte per minuti interi, poi ore, poi giorni, lei felicemente va incontro a quel nero come cercando. Trascina una sedia giù per le scale, scendo al terzo piano e mi siedo anche io su una sedia pieghevole, la lascerò sempre li, per vedere l’antro che la accoglie. Sistema la sua sedia accanto alla cassetta delle lettere, si siede, guarda immobile la buca, la bocca cava le sta sussurrando in un orecchio, infila la mano, la toglie ed è vuota, lei gioca con una ciocca di capelli dondolando le gambe, immobile.

Annuso una gardenia, attorciglio una foglia stretta di garofano, mi liscio la camicia. Lei trasporta un lampadario, in testa il paralume-cappello, lo accende vicino alla buca delle lettere, si siede, apre un libro. Legge. Lo richiude, sbadiglia. Lo riapre, gli occhi scorrono veloci in mezzo alle righe. Guarda la buca, accarezza la targhetta con il suo nome, una città, una data, mia cara, il francobollo, curve intrise di calligrafia, sbavature, svolazzi, cancellature.

Soffia una tramontana indaco, la terra si muove, gorgoglia, racconta storie di profondità e di spaccature. Io aspetto, lei porta un tavolino nell’androne, una penna, un foglio. Mio caro, sento aria nelle vene, tremano i caratteri nel tempo che si infrange, si ritira, si dilata, si annulla. Passa. Sorpassa entrambi e non so più un’ora che cos’è.
Io le piante la grondaia la terra sospendiamo all’unisono il respiro, tornerà, forse no, l’androne nero la tiene tra le braccia lei dondola di un soffio che sento da quassù .

Finché è tutto vano. La terra mi sfianca di storie, mi narra di energie stratificate in abissi insondabili, la mia attesa si è fatta altra vita, non la vedo ma sento dov’è. Lei ha cambiato casa, ha traslocato nella lentezza, dove tutto si attarda, si gonfia, si svela dalle infinite maschere. Abita con le buste, gli inchiostri, i timbri postali, i lunghissimi eterni svuotati di finalità. La sento battere il piede all’unisono con la terra, fuori tempo con il presente, in un ritmo ancestrale che parla di speranza.

Nell’androne sedie, tavoli, bicchieri, lampadari, piatti, divani, poltrone, le scale, la buca delle lettere, l’abitare delle sue attese.

Il niente, il rintocco della roccia che si spacca, l’abitare della mia.