Davide Mosconi/ Cieli bucati – di Gabriele Bonomo

Cielo bucato-1973

Cielo bucato-1973

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

In un testo scritto in occasione della prima mostra personale di Davide Mosconi – Il sogno di Davide – che si svolse alla Galleria Il Diaframma di Milano nel maggio 1968, Enrico Filippini descrisse con efficacia una delle costanti che avrebbero poi orientato tutta la successiva produzione fotografica di Mosconi: «[…] poiché si tratta di fotografia o, diciamo, di materiale fotografico manipolato in vista di un senso che infrange le regole fisse della tecnica, si può intendere che qui la fotografia sogna di diventare un’altra cosa, di scavalcare l’ambito del genere che essa costituisce e che le è prescritto dalla sua origine tecnica, dalla sua storia dal secolo scorso a oggi, e dalla sua precisa collocazione “sociale” nell’ambito dei mezzi di riproduzione e di alterazione del reale […]». Infrangere e scardinare le regole della tecnica sono stati in effetti il motore che condusse Mosconi alla costruzione del proprio personalissimo universo visionario votato a trascendere il ‘sensibile’ attraverso gli stessi dati della materia ‘sensibile’. Di questa attitudine, i Cieli bucati (1973) rappresentano una coniugazione esemplare per l’essenzialità e l’estrema riduzione dei suoi elementi costitutivi. Dal ciclo citato in precedenza e realizzato cinque anni prima, Il sogno di Davide, Mosconi estrapola il solo tema/elemento del cielo – che là si inseriva sia come trait d’union sia quale elemento di contrasto all’interno di una serie eterogenea di immagini volutamente allusive a una dimensione onirica – e, per l’evidente cifra simbolica che racchiude, lo assolutizza. Il cielo sarà da allora il soggetto forse più ricorrente, sino al vasto ciclo di Disegnare l’aria (1995/96), nelle opere di Mosconi. Non occorre, qui, soffermarsi sul significato simbolico dell’osservazione del cielo che così tanto interessa l’Autore. Si osservi, piuttosto, come le sue rappresentazioni siano sempre assunte come ‘segno’ a priori capace di disporsi in una serie di gradazioni infinite e casuali, in ovvia relazione con la maggiore o minore intensità delle luce, la presenza o meno dei disegni dei corpi nuvolosi e di altri fattori accolti per la loro transitorietà. Quasi come fosse una ‘scrittura’ del caso, una scrittura che il caso ‘offre’ allo scatto fotografico e rivela all’inconscio ottico. A questa ‘scrittura’ si sovrappone il gesto della manipolazione, un gesto altrettanto estremo nella riduzione dei suoi elementi: la perforazione con un punteruolo o un taglierino del negativo fotografico o del trasparente positivo di una diapositiva. È un gesto di manipolazione quasi ‘ludico’, perché ripetitivo, e che risponde a un analogo principio di strutturazione arbitraria e casuale, poiché il risultato finale che si otterrà con la stampa fotografica non è previsibile: una ‘sovrascrittura’ casuale alle ‘scritture’ del caso. L’allusione alla dimensione fisica del vuoto si compenetra in questo modo alla nostra visione soggettiva dello spazio infinito.

 
 
©Archivio Mosconi