Quando furono concepiti gli uomini di natura – di Francesco Saba Sardi

 

La natura è un’invenzione.

Perché ci sia, perché sia concepibile, visibile e vista, è stato ed è tuttora indispensabile supporla, cioè vederla dal di fuori.

Non esservi immersi, non considerasi tutt’uno con essa, come per esempio i Pigmei Mbuti dell’Ituri che considerano loro antenato o antenata. O come gli Inuit che in parte almeno continuano a considerarsi manifestazioni dell’ambiente artico.

Da un qualsiasi enciclopedia: La natura è il sistema totale di cose che presentano un ordine che si esprime in tipi e in leggi. E ancora: con il termine natura si designa la volontà di ordine che si manifesta in quelle leggi, quindi come principio vivo e operante, forza generatrice di tutte le cose.

Ma c’è dell’altro, Natura è l’universo considerato nei suoi fenomeni, attività, ordine, cioè quale una natura oggettiva che l’uomo contempla, studia, modifica. Dunque, realtà che precede l’opera dell’uomo e che può esserne modificata tramite lavoro, arti, incivilimento, etc. Senso della natura è poi il sentimento della bellezza di luoghi e paesaggi con determinazioni per indicare un particolare aspetto di un paesaggio.

In tutti i casi, una natura preesistente, della quale all’uomo è dato solo di costatare l’astanza con le sue tipologie e leggi e di apportarvi limitate alterazioni.

Stando alla visione accademica e enciclopedica sarebbe da ritenere che i gruppi, cosiddetti primitivi, che si siano dati la fisionomia di società o almeno di raggruppamento tribali, essendo dal punto di vista etnocentrico – discorsivo occidentale, barbari e pagani, privi di razionalità, capaci di praticare magia e non religioni, sarebbero da collocare in uno stadio iniziale immaturo, del divenire umano destinato a ben altre eccellenze.

I primitivi odierni–elettivo oggetto di esame da parte delle antropologie e affini–andrebbero pertanto intesi come statici, privi cioè di storia e inseriti in fenomeni evoluzionistici dai quali sarebbero condizionati e travolti a loro insaputa. A loro la natura si imporrebbe, inglobandoli e facendone, appunto, uomini di natura.

Premesse, queste, che implicano  la vicenda della conoscenza della conoscenza, sempre secondo le cognizioni accademico enciclopediche. Costitutivamente l’umanità non sarebbe fin dall’inizio in possesso della parola, e dunque del pensiero, ma solo un po’ alla volta avrebbe elaborato il linguaggio, la capacità di esprimersi dapprima verbalmente, poi anche per iscritto, e finalmente per via telematica, digitale, magari telepatica. Dei primordi avrebbe mantenuto solo modalità di comunicazione con se stessi e con il mondo circostante di tipo sociale, gestuale,  mimico. Nella fase successiva ai primordi,  si sarebbe  poi superato e squalificato il mito (inteso quale una visione ingenua, impreciso, fantasmatica del mondo), per inaugurare il regno dell’utilità, della provvidenza, dell’effettiva conoscenza, dell’esattezza: il mondo delle cose, degli oggetti tangibili come degli oggetti della conoscenza e comprensione dei fenomeni concreti, economici, politici, psicologici e via dicendo.

Sono affermazione reperibili in ogni di scuola di ogni livello e grado, di propaganda politica, religiosa, di divulgazione o specializzazione… ed è una visione che si ritrova pari pari anche nella stragrande maggioranza di quella che chiamiamo testi di letteratura narrativa e che anzi ne sono la colonna portante.

È una ferma credenza, quella della natura preesistente, di cui è solo da costatare la realtà concreta, quale è andata prendendo forma già da molti secoli, a partire almeno da quello che chiamiamo almeno il Neolitico. Ed è una visione metafisica, saldamente radicata almeno a partire dalla letteratura che consideriamo antico-classica. Valga l’esempio del poeta latino Tito Lucrezio Caro ( 94-50 a. C. circa) autore dei sei libri De rerum natura, in cui nega l’esistenza delle divinità ( Ifigenia e l’empietà della religio, vv. 127-164 del libro primo, ma afferma che nulla nasce dal nulla, e in questo nascere si afferma come tale.  La natura non è regolata da alcun potere divino libro quinto, 195 – 246) ma «il corpo della terra e l’acqua/ e gli aliti lievi dei venti e l’ardente calore/ che appaiono che appaiono comporre questo intero universo/ consistono tutti di un corpo che nasce e muore… »

È una concezione che si ritrova anche in ambiti lontanissimi rispetto alla classicità  greco-romana, e basta porre mente alle diverse buddistiche dell’universo, diverse ma tutte concordi nel considerarlo uniformemente regolato da leggi– che ci sono, ma di cui si ignorano origine e significato– un universo che non è stato creato. Che esiste.

 

Almeno 30.000 anni fa i nostri progenitori paleolitici si dedicavano, in tutte le zone in cui itineravano, cacciavano, pescavano e raccoglievano sostanze vegetali, al tracciamento di segni che forse rappresentavano quanto li circondava. Codesto forse è indispensabile, dal momento che le immagini di molti animali ivi raffigurati corrispondono alla visione – ottica e fotografica– che ne abbiamo noi oggi. Va però notato che nel novero delle forme rappresentate mancano alcuni esemplari di importanza fondamentale sotto il profilo non solo fisico, e sono, nelle grotte, caverne, ripari sotto roccia europei, i serpenti  velenosi o meno la cui pericolosità non poteva essere minore allora di quanto sia oggi; e in Australia non si trovano immagini paleolitiche interpretabili come coccodrilli, soprattutto quelli più pericolosi, i marini.

È lecito dedurre che tali immagini corrispondano a un atteggiamento empatico nei confronti della fauna? A una forma di familiarità fra uomini e animali, all’accettazione immediata della loro presenza con tutto ciò che comportava (fonti alimentari in primo luogo). Sono ipotesi che potrebbero trovare conferma nel fatto che animali come i mammut, i bisonti, i leoni e altri felini potrebbero essere non meno pericolosi dei serpenti e dei coccodrilli per chi doveva affrontarli.

Altrettanto degna di considerazione è l’evidenza che le immagini prodotte dai paleolitici non mostrano tracce di lenti processi evolutivi. Almeno le figurazioni parietali paleolitiche risalenti almeno a 30.000 anni fa e che da molti anni a questa parte sono state oggetto sono state oggetto di scoperte, indagini, interpretazioni, nulla hanno del «primitivo». Tra esse non sono reperibili rozzi sgorbi, meri segni insignificanti, ma ci si trova sempre di fronte a immagini già mature e per noi già chiaramente leggibili, fin dall’inizio significanti e significative a smentita della visione meramente evolutiva della capacità umana di rappresentazione, o più esattamente di invenzione, del mondo circostante, quello interiore e quello esteriore.

È accaduto però che le molte indagini  sull’universo delle genti paleolitiche quale risulta dalle immagini  da essi lasciate  e dagli oggetti  da essi fabbricati sono state  oggetto di interpretazioni limitate a singoli elementi di indagine, senza che si tenesse conto  di almeno due evidenze:

a) Nella penisola di York, nella regione nordoccidentale dell’Australia sono state reperite immagini parietali risalenti a più di centomila anni fa, come inequivocabilmente  risulta da recentissime rilevazioni al C 14. Una datazione del genere smentisce di per sé tutta una serie di nozioni banalmente evoluzionistiche, in primo luogo che i primi abitatori dell’Australia vi sarebbero comparsi, forse provenienti da altri continenti o isole, non prima di 50.000 anni fa. Affermazione aprioristica, ma genericamente accolta in sede accademica.

b) La nozione di un’arte paleolitica semplicemente magica, avente cioè funzione di esortazione augurale o speranza nel successo della caccia, sempre più spesso viene considerata insostenibile e a essa si va ormai sostituendo una cognizione di arte paleolitica ben più ricca e complessa, gravida di aspetti significanti e inediti. Ed è quella di una sua appartenenza all’invenzione di un mondo mitico che già abbondava di tradizioni, a loro volta precedute da tradizioni più antiche di cui oggi, è vero, non abbiamo più tracce concrete. D’altra parte, è possibile che i nostri pur abilissimi progenitori (che dipingevano, facevano il fuoco, che cacciavano, che pescavano, raccoglievano vegetali, uccidevano animali di cui evidentemente cuocevano le carni) non ne avessero cognizione? Le carni, dico, delle bestie da considerare rispondenti alla grandiosa avventura animalistica che si svolgeva nei dintorni degli accampamenti dei nostri progenitori.

 

E con ciò torniamo all’affermazione iniziale di questo mio scritto. La natura  è un’invenzione. E quella dei paleolitici è quasi esclusivamente animalistica.

In altre parole, manca la visione di un sistema totale delle cose, quelle che per noi  oggi rappresenta un ordine manifestatesi in tipologie e leggi. I soli animali che compaiono sulle pareti rispondono alla maggioranza degli esemplari zoologici frequentabili dai nostri antenati. Che però non basterebbero a comporre un’immagine didascalico- enciclopedica, tipicamente nostra, del mondo.  Gli animali, dunque. E le piante? Le formazioni rocciose, i corsi d’acqua, i laghi, le paludi, le foreste, le zone aride, i deserti? Dove sono? Possibile che i nostri progenitori non li vedessero, non ne avvertissero la presenza?

Si può chiamare natura nella nostra accezione un insieme di immagini non rispondente a un ordine complessivo generale che trovi espressione in tipologia e leggi? Va però notato che, i nostri progenitori distinguevano gruppi di animali, non volevano o non sapevano arrivare a classificazioni, a sistematici raggruppamenti specifici. Per i decoratori delle grotte  contava tutta la grotta stessa, il suo andamento, le sue asperità, le rientranze, i diverticoli, gli ostacoli, la lunghezza, l’atmosfera che vi regnava, l’andamento generale, la direzione del suo percorso… La decorazione consisteva dunque nell’invenzione di una realtà fisica che si addentava nella terra. Le grotte venivano decorate nella loro totalità come i primitivi odierni- sempre che questo accostamento sia lecito- decorano se stessi, per esempio con strisce colorate di caccia o altro.

 

Va tenuto sempre presente che il Paleolitico ha preceduto di migliaia e forse milioni di anni quella che è stata definita la Rivoluzione Neolitica. E noi ne siamo non solo gli eredi, ma gli immediati partecipi. Siamo neolitici. Non affiliamo pietre. Costruiamo macchine.

In effetti quella Neolitica è stata, e tuttora è l’unica rivoluzione che si possa davvero definire tale. Affermandolo non intendo riferirmi all’oggetto rivoluzione, res che è di ardua determinazione, ma prendo in considerazione la genesi della parola e le sue numerosissime letteralizzazioni nei corsi dei secoli. In primo luogo poi nei tempi più recenti, quella astronomica, il rivolgimento di un astro attorno a un altro astro in un’orbita chiusa e la durata del suo periodo. Si è poi passati a designare con il termine una visione dell’universo come prodotto o effetto di un intervento causale metafisico, la favola religione: nascita dell’universo e pertanto rivoluzione come prodotto di un’unica volontà monocratica.

Si è quindi avuta una fase in cui il termine rivoluzione, calato dall’empireo, ha designato sì cambiamenti politici ma senza che si tentasse di individuarne le ragioni. E solo tra il XIX e il XX secolo la rivoluzione è diventata originale e inedita aspirazione a un ordine nuovo, non più il ritorno a ordini precedenti ritenuti migliori e rimpianti. Ma bisogna giungere a Marx perché la rivoluzione diventi strumento per la prospettata – e irrealizzata- conquista di una libertà effettiva e definitiva mediante il superamento delle classi.

Tutte cose risapute, certo, come del resto è risaputo che al passaggio tra Paleolitici e Neolitico si sono verificati, e sono concretamente verificabili sulla scorte dei reperti materiali, che cambiamenti di importanza fondamentale. I pochi esseri umani allora presenti sulla terra, per ragion in gran parte ignote ma ipotizzabili ( superamento del mito precedente- invenzione di un nuovo mito) si stanziarono, abbandonarono lo sfruttamento del mondo circostante, concepirono l’idea di una produzione autonoma, sistematica, degli alimenti e degli oggetti da fabbricare allo scopo; costruirono villaggi e poi città, inventarono o reinventarono l’agricoltura e l’allevamento del bestiame, si diedero ordinamenti, termine che equivale e gerarchie e legislazioni, istituirono le divinità, e dunque la religione, quella che Lucrezio definisce « l’empietà della religio»; e innanzi tutto, quasi a considerarli i primi animalisti da domare, imponendo il dominio del maschio umano sulla femmina umana.

L’uomo s’impadronì di quello che considerò e definì il mondo. La natura divenne concreta, precedente: metafisica astanza; ed ebbe uno dei suoi momenti fondamentali nell’illustrazione del potere: grafica, plastica, metaforica ( monumenti, piramidi, spettacoli, esaltazioni…) Atto di assudditamento al dominio che ben presto fu oggetto di contestazione degli autori greco – latini, accompagnata però sempre dalla proposta di sostituire il vecchio potere con un potere nuovo.

Ne seguì l’imposizione del Discorso occidentale, quanto dire di una rigida visione etnocentrica. Cioè di un mondo alla rovescia. Nel quale continuano a venire prima le determinazioni, le classificazioni, le interpretazioni, e solo successivamente le osservazioni sul campo. Insomma un mondo in cui il primitivo è per definizione «alterità», l’esatto contrario di ciò che è «appropriato», accettabile. Una visione peggiorativa di un mondo popolato da un lato da civili, dall’altro da individui chiamati “barbari” e “pagani”. Incapaci  di visioni teologiche religise. Incapaci di attingere al logos e di rinunciare alla loro istintuale violenza.  È accaduto così che i “ selvaggi” venissero ridotti a uomini di natura, Tra i quali non si mancò di distinguere una categoria, quella dei buoni selvaggi. Tant’è che i  primi esploratori dei mondi nuovi ( Americhe, Oceania, Australia…) appaiono incerti tra una nozione peggiorativa e una idealizzazione del buon selvaggio ritenuto docile e facilmente convertibile ai valori del Discorso.

Punti di vista che non ammetteva e tuttora non ammettono se non la loro aprioristica accettazione, ed è su questo presupposto che in pratica si fondano tutte le antropologie e le etnografie. Nonostante i tentativi di alcuni, per esempi Lévi–Strauss (1962 di elaborare la proposta di una pensée souvage come dotata di una propria razionalità esplicatesi in un bricolage intellettuale, in una capacità sia pure imprecisa, spesso patetica, di intervenire sul mondo anziché semplicemente subirlo.

Ciò che non toglie che abbia continuato ad avere amplissimo seguito la favola del primitivo come indifferente, in quanto incapace di concepire la propria origine. Insomma la mitologia del selvaggio – astorico, per il quale il tempo si sarebbe fermato, e avrebbe continuato a roteare su se stesso, senza potere assumere al fisionomia del tempo lineare, concetto insostituibil e indiscutibile  del progresso e della modernità: la freccia diretta senza deviazioni a una fine- forse ignota,  ma che consiste per certo nella conquista delle stelle, e in  un futuro sempre migliore. Il tempo quale è stato ed è saldissimamente concepito dal pensiero etnocentrico occidentale.

Occorre però astenersi da un trattamento paritario del selvaggio e del portatore del Discorso. Altrimenti, non si spiegherebbe la riduzione del primo a uomo di natura, essere inferiore, incapace di effettivo logos e, come gli aborigeni australiani, dedito al dreamtime, che, vuole la favola etnografica, consisterebbe nell’attendere passivamente la rivelazione della lancia, dello scudo, dell’animale buono da cacciare, delle vie dei canti da percorrere, a opera e per grazia di un eterno antenato.

 

 

 

 

 
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