Immagine fotografica di Maurizio Melandri
Gli alberi della rupe, come abili trapezisti, sono i silenziosi guardiani del fiume. Imponenti ascoltano, mentre spingono le loro chiome verso l’alto.
Cammino e appoggio una mano su un tronco. Sento la pace della corteccia, il suo essere remota e profonda. Alzo la testa verso il cielo. Una luce abbagliante mi trascina via. Immateriale materia, il ritmo dello zefiro-respiro: densità lieve del pulsare vita d’attimi.
Mi soffermo a guardare un grosso sasso. Colore dell’ocra, bruciato dal sole, arso, spigoloso e poroso. Un rudere di sasso. Esiste il rudere del sasso? Un residuo, forse.
Un calore avvampa dalla pietra, sparge e mi asperge di essenza indistinta, che ci avvolge di destino. L’infinitesimo granello di terra freme. Fremito lieve, bizzarro, trasuda d’impeto nello scorrere dell’acqua. Il fiume: le mie arterie. Rigagnoli di vena artigliano radici, più in là, ancora tanti venti e temporali, il mare aperto. Permane la forza delle mani che hanno levigato quella pietra; lavatoio straripante di energia intonato ai canti delle donne, allo scalpiccio dei cavalli.
Sento la pietra, la sua consistenza ruvida e sfuggente, in me atmosfera che dilaga espansa. Indivisibili, non siamo confinabili.