Natura e ambiente – di Gabriella Landini

 

“La natura essendo vaga e pigliando piacere del creare e fare continue vite e forme, perché cognosce che sono accrescimento della sua terrestre materia, è volonterosa e più presta col suo creare che il tempo col suo consumare.” (Leonardo da Vinci)

La natura essendo vaga… è generosa nella sua multiformità, così ritiene Leonardo. Ma il termine Natura nella tradizione del pensiero cogitante è tutt’altro che vaga, ha sempre avuto connotazioni precise, Physis, la chiamavano i presocratici greci, termine che etimologicamente designa natura, ciò che nasce, (nasci in latino) cresce, opposta a Nomos, termine che indica Legge, Costume, Convenzione. E tutto ciò che viene organizzato a livello delle costumanze e della cultura non può fare a meno di confrontarsi con ciò che noi denominiamo “natura”, comprese le complesse definizioni che diamo delle “leggi di natura”: la causa prima dell’avvento del cosmo, del globo terrestre, dei pianeti e dell’universo legge della necessità e dunque del principio stesso della vita. E quindi parlare di natura significa immergersi in una complessa alternanza di definizioni razionali: scientifiche, mitologiche, teologiche e fantascientifiche che nel corso dei secoli hanno dato di volta in volta, a seconda dei casi un primato alla definizione di ciò che riteniamo “natura”, rispetto a ciò che riteniamo “cultura”, e viceversa. Comunque si voglia in entrambi i casi la definizione dell’ambito “naturale” è quanto di più culturale possa esservi, più chiaramente le nostre convinzioni intorno alla natura sono l’esito culturale dell’osservazione della medesima, al punto che nel corso dei secoli il termine ha assunto valenze diverse a seconda di quanto strumentalmente poteva essere finalizzato alla dominazione dell’ambiente. Le leggi di natura divengono condizione e causa delle leggi di cultura fino alla nemesi storica in cui le peggiori atrocità venivano e vengono tutt’ora dimostrate e comprovate attenendosi alla “seconda natura”, fondata sulla prima, delle leggi di natura dell’uomo.

La conseguenza di questa dominazione la sperimentiamo quotidianamente vivendo. Il termine ambiente significa alla lettera “ciò che ci circonda”. Si tratta di un concetto piuttosto vasto e indefinito che si adatta meglio della definizione di natura, all’intento di non distinguere in tante frazioni particolari l’ambito di ciò che riguarda l’uomo e ciò che lo circonda in tutti i suoi aspetti. Infatti, il termine ambiente riguarda non solo la natura, ma anche la cultura, in tutte le sue variazioni. Dividere natura e cultura, o decidere chi delle due abbia una supremazia sull’altra, è una pretesa di per sé assurda che corrisponde a una precisa concezione del dominio sulla terra con tutti i suoi corollari semantici. Dominio sulla “madre terra” che risulta sempre da demonizzare, sempre da salvare, causa di tutti i mali: la morte, il corpo e la sua corruttibilità, l’istintualità, l’animalità, la sessualità, il peccato, la lussuria, la carestia; oppure “madre terra” apportatrice, di tutti i beni: la nascita, il nutrimento, il riparo, la cura, la sicurezza, la fertilità, l’abbondanza, la verginità. La madre terra che diviene paradigma della sottomissione della donna, della sua domesticazione, in quanto essere procreativo, nonché paradigma di ogni dominazione dell’uomo sull’uomo e della terribilità del potere, esito della grande riduzione e coercizione operata con l’avvento dell’agricoltura e con il passaggio da una cultura itinerante della caccia e della pesca a quella dello stanziamento. Lo stanziamento organizza per riduzione dall’indefinibile al definibile procedendo per una artificiosa totalità teorica, che ha effetti pratici nel governo della polis.

L’esercizio del potere ha effetti che si manifestano in ogni circostanza del vivere: la trasformazione e il tentativo di domare la natura in quanto selvaggia, oscura, è fra i primi modi della pratica dell’agricoltura. La trasformazione dell’ambiente- natura ha comportato l’abbattimento di foreste, la deviazione dei corsi d’acqua, l’addomesticamento più o meno forzato degli animali e l’immensa riduzione delle piante commestibili a piante coltivabili e programmabili per quantità di produzione in modo ordinato e razionale per permettere, fino al gigantismo odierno, la proliferazione degli insediamenti urbani. La riduzione a una modalità unificante della coltivazione fa  parte di una concezione teorica totalitaria, dei principi di riduzione all’Uno (universo, universale), concepiti a sistema tutt’ora operante ed esclusivo, dal momento che l’organizzazione degli uomini in società e poteri non può fare a meno del principio causale da cui fare dipendere l’apparato razionale. Tutta la cultura che ancora oggi viene denominata “primitiva” è stata soppressa con la violenza e gli espropri, quando non convertita o sedotta, e in rarissimi casi lasciata esistere nella sua specifica particolarità non riconducibile a quella che noi definiamo civiltà. Presso le rare popolazioni rimaste indifferenti alla grande mobilitazione di edificazione urbana, vengono ancora praticate antiche forme di sapienza e medicina che prontamente, negli ultima anni, le case farmaceutiche hanno tentato di brevettare a loro esclusivo appannaggio, depredando le residue forma di sapienza altra. La possibilità di esercitare questo potere sulla natura è venuta in essere grazie all’invenzione del dominio onde sottomettere e strumentalizzare l’uomo in quanto macchina, in quanto corpo mobile e strumento tecnicamente utile, evento che ha permesso nel tempo di moltiplicare la creazione di oggetti – macchina.

Ma il primo atto di questa epopea dell’idea di dominare è iniziata dalla natura, di renderla res, e di conseguenza anche tutto ciò che da essa e in essa nasce, compresi gli esseri umani, i quali per potersi affermare immortali dovrebbero sempre affrancarsi dalla loro presunta naturalità, uccidendo, depredando, estinguendo e costruendo torri babeliche. È difficile ammettere che ci siamo inventati la definizione di natura e di cultura; preferiamo affermare che ciò che man mano costruiamo è frutto di una scoperta. La scoperta sarebbe la manifestazione della verità rivelata, a cui ci siamo adattati o ci è stata forzatamente imposta, e in quanto tale ci deresponsabilizza dalla nostre scorrerie logoiche, permettendoci di decretare che si tratti di una legge divina, terrena, di natura, dell’uomo malvagio o saggio che sia, che la terra la possiede, mentre affermare che si tratta di un’invenzione dell’uomo, di una sua speculazione proiettiva comporterebbe l’assunzione di responsabilità, e dunque libertà e urgenza di cambiamento – assenza di fatalismo magico nei comportamenti umani.

L’origine dell’universo cambia nome, ma non cambia la sua mitologia di origine, l’idea dell’inconoscibilità della natura rafforza la speculazione epi- teo-onto sul suo dominio, e anziché produrre interrogativi, lasciare aperti enigmi, anzi, enigmi inesorabilmente irrisolvibili, perduriamo a insistere sulle presunte cause prime e ultime, argine spettrale e fantasmagorico di ogni idea di distruzione e salvezza. E in nome della salvezza vengono giustificate crudeltà di ogni genere. Solo gli eletti dalle divinità si salveranno dal flagello che noi stessi procuriamo, solo chi avrà le capacità di sopravvivenza naturalmente selettive a imitazione del leone o della iena potrà sopravvivere alle sventure che l’uomo sovrano produce insediandosi sul cratere di un vulcano. La dominazione affermatasi per supposta naturalità, ma superiore per capacità di favella e libero arbitrio e facoltà di autodefinirsi di “natura divina”, in quanto emulo zoologico organizzato superiore alle specie che non hanno capacità di edificazione raziocinante quale è l’urbe onnivora ed espansiva, la quale necessita di un sistema chiuso di riconducibilità automaticistica costante degli elementi gli uni con gli altri per sortire gli effetti ipostatizzati dalle cause. E nella concatenazione la stessa idea di natura e uomo vengono definite in una serie di morti e rinascite cicliche sorprendenti nella loro ripetitività di modulo inserite in un tempo lineare inneggiante al progresso, inesauribile miglioramento della civiltà.

Il concetto di causalità della natura che noi possediamo da millenni ha per conseguenza la schiavitù, il sacrificio della vita umana,  e quella che si chiama domesticazione sia delle forme viventi sul pianeta che dell’uomo sull’uomo. I dominatori si definiscono sempre per antonomasia immortali, e per dimostrarlo distruggono, attribuendo questo alla natura medesima delle cose del mondo. Ma quando parliamo di natura inevitabilmente siamo costretti a parlare in pari tempo di cultura. La cultura del bosco, della montagna, delle valli, del mare e della scogliera, i racconti, le favole, hanno strettamente a che fare con quell’elemento che vorremmo dominato in nome di un primato della cultura sulla natura. Oggi il racconto parla di inquinamento, di degradazione, che certo non si presenta come un degno programma per l’avvenire, ma ogni nuova teoria si propone come la ricetta perfezionata della salvezza.

E il nuovo grande affare della terra, – anche se tutto ciò che affabuliamo non soltanto è inesaustivo intorno alla natura e all’ambiente ma è anche irrilevante riguardo il pianeta – narra la nostra presunzione, la nostra somma arroganza nei confronti del vivente e innanzi tutto nei confronti di noi stessi. Noi presunti dominatori, oppressori di quella componente di noi stessi che chiamiamo natura e che a seconda delle epoche demonizziamo, esaltiamo, reprimendo l’ambito degli istinti, come se questi non fossero elemento comunque rilevante in ciascuna delle nostre decisioni. Ma noi agitatori di fantasmi e spettri, li mettiamo in scena e per secoli e secoli stiamo a fare gli spettatori di un teatro che abbiamo edificato per soccombervi.

Per primi vorremmo domare noi stessi, la natura-corpo che è in noi, l’elemento armonico e sovversivo di ascendenza mitica, mortificato attraverso il peccato, la bestialità, la carne, e via dicendo, non senza avere commesso, in nome di un dominio sulla natura, la grande dea madre, una serie di crimini orrendi su noi stessi e sugli altri. Il pianeta, la terra, gli astri, le nane bianche, le giganti rosse, esistono imperiture, indifferenti alla nostra esistenza;  per noi, invece, il pianeta è sorte- destino e istaura il campo della differenza, è  il luogo di ogni nostra vicenda, delle nostre risorse, della nostra avventura, della nostra parola.

La natura intesa come realtà è un artificio seducente quanto lo è il tentativo del pittore paesaggista di cogliere e riprodurre la luce esatta di un crepuscolo mentre scoppia un temporale. Quello che esiste è molto più vasto di ciò che noi denominiamo natura. La natura è mitica. La natura evoca la nascita, la nascita di ciascun elemento che compare a questa vita. È il De rerum natura, da dove vengono e dove vanno le cose, dove stanno il corpo e la scena. Natura da dove e come le cose divengono. Ma alla natura non possiamo attribuire il punto di scaturigine iniziale, fantasma di origine, che è nostra invenzione – la nascita non può essere scambiata per l’origine, e quindi un ritorno alla natura come ritorno all’origine. Alla natura non si ritorna perché è impossibile lasciarla, la nostra esistenza sta nella perennità, resta nel residuo oltre la morte, nel fossile, nell’osso, nella vena del gesso, nel nostro essere sbalzati nel pulviscolo della stratosfera.

La natura permane, mentre l’urbe artificio sapiente la estromette e la personalizza e divinizza come entità temporale da temere, la rende funzionale al terrore perituro, che è utile per sgomentare e sottomettere. La natura-madre-terra-materia concepita come connessa alla morte, è una credenza circa l’idea terrifica che la vita venga data con la clausola che si possa toglierla. Ma la morte non dipende dalla madre, dalla natura in quanto naturalità degli eventi, perché la morte non spetta a quella che noi denominiamo natura, ma all’accidentalità. All’eventualità. Ed è la polis, che controlla le accidentalità, che tenta di governarle, le produce rappresentandole e dichiarandole naturali, così le distruzioni vengono giustificate nella loro fattualità.

Il presunto ritorno allo stato primigenio, all’origine, è un arcaico tentativo di purificazione e rigenerazione che spazza via l’infinito e la differenza, senza ammettere altro che non sia definibile e classificabile se non parzialmente e provvisoriamente. Ciascun elemento che appaia a questa vita è originario nell’istante del suo apparire ed è natura, cultura, altro, e  sta, per dirla forzando un po’ Cantor, nel transifinito.