Contatto con il nemico- di Alan D. Altieri

 

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CONTATTO  COL  NEMICO

Racconto di

Alan D. Altieri

 

 

We have met the Enemy.

And the Enemy is us.

George Washington

 

 

 

“Movimento.”

“Coordinata e distanza.”

“Ore undici. Duecento… No: duecentoquindici metri.

Kogon scivolò tra le masse metalliche sventrate, cambiando punto di copertura. Tenne la bocca da fuoco del fucile di precisione puntata verso il Nemico.

“Hai acquisizione del bersaglio?

Nell’intercom ad alta frequenza, la voce di Greenwald, Tenente Greenwald, era incrinata dalla statica.

Kogon tenne l’occhio incollato al mirino telescopico, scansione laser. Blocchi di coordinate digitali della profondità di campo mutavano sul perimetro della lente, simili ad assurde termiti cibernetiche.

“Negativo.”

Il vento continuava a sibilare tra i relitti, duro e gelido. Nessun movimento. Forse, un movimento, un Nemico, non erano neppure mai realmente esistiti. Tutto quel vuoto. La mente umana non è in grado di fare i conti con il vuoto.

Kogon si passò la mano guantata sugli occhiali protettivi. Rimosse le tracce di pioggia torbida, acida.

Il ponte era un labirinto devastato. Mezzi corazzati sventrati, asfalto disseminato di rottami, rivoltato dalla lebbra dei crateri. Più oltre, a nord del fiume morto, si stendeva una pianura desolata, inerte.

“Kogon” Greenwald, di nuovo. “Voglio un rapporto tattico che abbia un senso.”

Kogon tornò a scrutare attraverso sistemi di prismi del mirino telescopico. “Stand-by.”

C’erano stracci nel vento. Residui di mimetiche da combattimento annientatei nell’aria satura di ceneri. Parevano pipistrelli deformi. In realtà, Kogon non aveva mai visto un vero pipistrello. Erano estinti. Assieme alle tigri siberiane, ai vini della Loira, alle foreste sub-tropicali e ai musei di arte figurativa.

“Ma riesci a vederlo, il Nemico?” Non Greenwald, nell’intercom: Valenti, medic. “Ci riesci?”

“Negativo.”

“D’accordo. Tieni la posizione” ancora Greenwald. “Noi veniamo avanti.”

“Negativo, tenente… Negativo!” Kogon serrò involontariamente la mandibola. “Io so che lui è là fuori.”

Altra statica. Voci inintelleggibili, mormorii di spettri. Il resto della squadra stava parlando, ma avevano bloccato i laringofoni.

“Greenwald! Non farlo!”

Il mormorio di spettri s’interruppe. Greenwald, Tenente Greenwald, aveva chiuso l’intercom. Ufficiali. Dio non è con noi perchè anche lui odia gl’idioti.

Kogon cambiò nuovamente posizione. Strisciò lungo i ruotismi di un tank distrutto, oltre metallo incrostato di lichene oleoso, putrido. Un quarto della corazza frontale era andato a fondersi con il cingolo di destra. La vampata termica a milleseicento Celsius di un proiettile-razzo PFI, Plasma-Fosforo-Incendiario, aveva liquefatto gli strati di acciaio, titanio e resina polimerica. Tornando a solidificarsi, il tutto era diventato un ammasso grottesco, vagamente osceno.

Kogon frugò con lo sguardo tra i tendaggi vagolanti di pioggia infetta. Aveva diciannove anni. In prima linea da quattro anni, sette mesi e ventidue giorni. Specializzazione: sniper, tiratore scelto. Trentuno abbattimenti confermati, altri quattordici probabili. Logica della demolizione. In ogni caso, nessuno dei nemici caduti probabili si era rialzato per andarsene con le proprie gambe. Logica della Guerra.

Kogon non riusciva a ricordare nient’altro.

Solamente la Guerra.

Forse, non c’era mai stato nient’altro. Da nessun’altra parte, in nessun altro tempo, in nessun altro spazio.

Impossibile rallentarla. Impossibile fermarla.

La Guerra È eterna.

Kogon spostò l’arma su un diverso campo di fuoco. Passi pesanti alle sue spalle. Soldato Valenti, mimetica nera, elmetto Kevlar, fucile d’assalto imbracciato. Corse curvo oltre il tank distrutto.

“Valenti!” Kogon  udì la propria voce venire fuori simile a un rantolo. “No!”

Niente da fare. Valenti evitò l’orlo slabbrato di un cratere, continuando ad arrancare tra i detriti.

“Prendi copertu…”

Lampo.

Non scese dal cielo. Sorse dal ponte: una frastagliata folgore da qualche parte dietro i relitti.

Valenti si piegò in avanti, stelo di grano reciso da una falce invisibile.

Crack!

Dopo il lampo, il ringhio del grosso calibro, colpo singolo.

Un vortice di sangue arterioso, assurdamente scintillante nel paesaggio a dominanti colore del piombo, eruttò a mescolarsi con la pioggia opaca. L’inerzia della corsa portò Valenti in avanti per qualche altro passo distorto. Cadde faccia avanti sull’asfalto venato di crepe. Le sue gambe ebbero un unico sussulto, spasmico e terminale.

Le onde sonore dello sparo si dilatarono sul ponte.

Simili a uno strano epitaffio.

 

 

Memoria.

Si è dissipata.

La memoria dell’inizio.

Perchè deve esserci stato un inizio. Devono essere esistiti un luogo, un tempo, in cui una parte si era avventata sull’altra per la prima volta. Ma ora quel luogo, quel tempo, sono un magma evanescente, imperscrutabile.

Qualcuno, al comando di settore, sostiene che il punto zero non è una incidente bellico vero e proprio vera e propria. Non un assalto di frontiera, nè un’invasione, nè un bombardamento. L’ipotesi è un’escalation di cieca crudeltà, di sadica ferocia. Poi sono venute le rappresaglie. Poi le rappresaglie alle rappresaglie. E poi si èeffettivamente creata una linea del fronte. No: molte linee di molti fronti simultanei.

Le convenzioni erano saltate. Le regole, tutte le regole, avevano perduto significato. Prigionieri? Sbagliato: nessuno prende più prigionieri, nè da una parte nè dall’altra. L’escalation è continuata. Ineluttabile, inarrestabile.

Una ferocia dopo l’altra.

Armi portatili.

Un sterminio dopo l’altro.

Armi pesanti.

Un genocidio dopo l’altro.

Armi nucleari.

I fronti si sono progressivamente sgretolati. Adesso tutti i luoghi, e nessun luogo, sono il fronte. E così è andata avanti.

Un esercito dopo l’altro.

Senza sosta.

Una sconfitta dopo l’altra.

Senza tregua.

Un cratere radiante dopo l’altro.

Senza uscita.

Ma adesso, nella logica della Guerra, è apparso un mutamento. Forse. Il contatto col Nemico si era fatto incerto, sussultorio. A combattere sembrano essere rimasti sempre di meno. Ma nemmeno quel mutamento ha importanza. Unica direttiva primaria: distruggere il Nemico. Prima che sia il Nemico a distruggere loro. E c’è anche una ragione, ugualmente primaria, per continuare a uccidere.

Solo che anche di quella si è perduta la memoria.

 

 

Tracciante-perforante, elevata penetrazione.

Aveva attraversato il torace del Soldato Valenti da parte e parte, spezzando ossa, squarciando tessuti viventi.

Kogon finì di trascinare il cadavere dietro la barriera del tank distrutto. Alla cieca, Greenwald e Jennings continuarono a sgranare un furibondo fuoco di copertura in full-automatic. Ringhiando, sibilando, il piombo ad alta velocità rimbalzò contro le lamiere dei relitti, vaiolate del tempo e dagli elementi.

Il Nemico?

Sapevano solo che è ancora là fuori.

Nessuna traccia del Nemico.

In attesa, in agguato.

I tre soldati vivi e il soldato morto rimasero appostati sotto la pioggia, fucili d’assalto puntati verso il vuoto.

Greenwald strappò piastrina da collo di Valenti. Si mise a tossire, come se avesse compiuto uno sforzo immane. Tosse come un rantolo di bronchi torturati, di alveoli disseccati.

Niente di nuovo, niente di strano. Se non ti uccideva il Nemico, erano il vento, l’acqua o il cielo a ucciderti. Era un mondo degenerato, quello della Guerra. Un mondo tossico, venefico. Malattie da radiazioni, tubercolosi mutante, epatite emorragica, peste leucemica.

Sulle labbra del tenente Greenwald, il soldato Kogon vide piccole, gorgoglianti bolle di sangue.

Logica della Guerra, certo. Non esisteva nessun posto in cui scappare.

Non è mai esistito.

 

 

“Non hai ascoltato, tenente.”

Greenwald serrò nel pugno la piastrina ancora viscida di sangue. Non c’era nessun nome sull’acciaio all’iridium, nessun numero di matricola, solo un codice a barre laser.

“Non passare il limite, soldato.”

“Hai staccato l’intercom in zona d’operazioni.” Kogon spinse gli occhiali protettivi sulla fronte. “Hai compromesso l’intera squadra. E la tua preziosa missione.”

“La missione va avanti!”

“Avanti dove, tenente? Fino alla prossima carcassa? O forse fino alla prossima incrostazione di lichene?”

“Conosci gli ordini, soldato: trovare-la-Zona-Neutra.” Greenwald indicò a braccio teso. “Al di là di questo ponte.”

“Non c’è niente al di là di questo ponte. Niente! Solo altri crateri. Tu lo sai, io lo so.”

“Quello che io so…” Greenwald puntò il fucile d’assalto contro il torace di Kogon. “È che ora tu andrai a porre fine a quello sniper nemico.”

“Perchè non vai a tu a porre fine, tenente?”

Il dito di Greenwald si contrasse sul grilletto: “Ti sto dando un ordine, soldato!”

Kogon rimase impassibile. Era anche quello un modo per uscirne.

Di colpo, Greenwald riprese a tossire, il torace scosso da sussulti spasmici, incontrollabili.

Jennings, l’espressione distorta, sostenne il tenente. Kogon frugò nelle giberne da medic del cadavere di Valenti. Trovò la bombola di ossigeno compresso, avvitò il boccaglio di plexiglas trasparente.

Greenwald si collassò contro il lichene, contorcendosi, rovesciando gli occhi.

Kogon riuscì a piazzare il boccaglio. “Respira, Greenwald.” Aprì la valvola di afflusso. “Forza… Respira!”

Un’emulsione di sangue esplose contro l’interno del plexiglass. La colonna vertebrale di Greenwald s’inarcò, si rilasciò. Quello fu tutto. La pioggia acida continuò a cadere sul bianco dei suoi occhi, cieche lune planetarie sradicate delle orbite.

 

 

Hanno dimenticato quale è stato l’inizio.

Ma non hanno dimenticato che può, che deve, esistere una fine. Il tempo degli eserciti sta per concludersi. Tempo, sempre meno tempo. La logica della Guerra è prossima alla vittoria finale. Tra non molto, a combattere non rimarrá più nessuno. Nemmeno da nessun’altra parte rimarrá più nessuno.

Così un sogno ha preso forma. Un sogno, un miraggio e una speranza. L’ultima speranza. In assoluto. Un luogo dove loro e il Nemico hanno imparato a coesistere.

O forse imparato nuovamente a coesistere.

Le pattuglie uscivano, certo. Ma non facevano ritorno. Niente rapporti, niente comunicazioni, niente corpi. Forse superavano il ponte e decidevano di restare dall’altra parte. Restavano nel miraggio.

Zona.

Nel luogo dove la Guerra aveva avuto fine.

Zona Neutra.

 

 

Il vento era aumentato.

Correnti piene d’umidità velenosa, intrise dell’odore dei metalli corrosi, della terra martoriata.

“Io continuo” il Soldato Jennings tolse il caricatore dal fucile d’assalto, verificò i colpi rimasti, tornò a inserirlo. – “Io vado alla Zona Neutra.”

“Ma non capisci?” Kogon serrò la mano guantata a pugno. “Non esiste nessuna maledetta Zona Neutra!

“Io vado alla Zona Neutra.” La voce di Jennings era atona, svuotata.

“È solo un inganno, Jennings. Una frode priva di senso per farci continuare a uccidere.”

Jennings uscì allo scoperto, camminò nel vento. “Io vado alla Zona Neutra.”

“Jennings! No!”

Il proiettile dello sniper Nemico centrò il Soldato Jennings al baricentro corporeo. L’urto del piombo spinse il suo corpo a crollare sui rottami. Il geyser di sangue in eruzione dalla sua schiena volò in una traccia purpurea sul metallo contorto del tank.

Kogon rispose al fuoco, collimazione al lampo del fucile dello sniper avversario. Per una qualche assurda ragione, non udì il ruggito della bocca da fuoco. Ciò che udì fu lo schiocco del proiettile che passava a velocità supersonica.

Nel labirinto di relitti, qualcosa ebbe un sussulto.

Kogon si riposizionò. Fece fuoco. Mandò il secondo proiettile a intercettare l’ipotetica curva di caduta del Nemico.

Sul ponte ci fu solamente il vento.

 

 

Kogon scivolò tra le ombre.

Contatto.

Fucile di precisione di traverso sulla schiena, pistola in pugno, presa bassa a due mani, posizione da assalto a distanza ravvicinata.

Contatto col Nemico.

Kogon continuò a muoversi nella notte imcombente, ignorando il martellare della pioggia acida.

Contatto terminale col Nemico.

Superò altre svolte nel labirinto devastato del ponte, altri crateri, altro lichene.

Il Nemico non fece niente per fermarla.

Kogon raggiunse l’estremo settore nord del ponte.

In Nemico giaceva di traverso sul bordo di un cratere. Due precisi fori d’entrata, parte destra del torace, base della gola. Il sangue si era mescolato all’acqua putrescente che allagava il cratere, un amalgama un colore violaceo, infetto.

Kogon sparò un unico colpo, conclusivo. Il proiettile della pistola da combattimento penetrò nell’oculare destro del visore notturno che copriva il volto del Nemico. All’impatto, il cranio si sollevò d’un palmo, scrutando per un attimo con l’altro oculare.

Lo sguardo di Kogon si spostò oltre il ponte. Nessuna luce nelle pianura battuta dalla tempesta. Nessun chiarore sulla cordigliera oscura che sbarrava l’orizzonte settentrionale.

Zona Neutra?

Molto più lontano.

Forse.

Molto più in profondità.

E forse no.

Kogon mise un ginocchio sul bordo del cratere, accanto al. Allungò una mano alla faccia del cadavere, sollevò il visore sfondato dal piombo.

Kogon espose il volto del Nemico.

La pioggia tossica riempì la caverna slabbrata che aveva preso il posto della cavità orbitale destra.

Un bambino.

Dodici anni, forse tredici. Portava la dentiera. C’erano zampe di gallina alle sue tempie. Nient’altro che un bambino. Diventato vecchio dopo aver saltato tutte le terre di mezzo.

Kogon si erse nel diluvio, pistola rivolta verso terra. Si passò le dita della mano sinistra sugli zigomi, alla ricerca di rughe sul proprio volto. Attraverso la resina del guanto, non potè sentirle. Ma sapeva che erano là. Era anche lei una vecchia, da molto tempo. Metamorfosi su campi di battaglia senza nome, combattendo una guerra sconosciuta, nel nome di un credo dimenticato.

La Zona Neutra continuava a essere un miraggio. Qualcosa di diverso dalla fine assoluta.  Forse lo era sempre stata. Qualcosa in cui volere credere.

Il Nemico è reale.

Il Nemico più primievo, più ancestrale.

Alla fine, tutta la fragile struttura, tutto l’instabile equilibrio dei millenni, si era disgregata.

Uomo. Contro donna.

La prima e l’ultima di tutte le Guerre.

Donna. Contro uomo.

Kogon lasciò che la pioggia acida scivolasse lungo il suo capo chino. Flussi torbidi inghiottiti dal ventre delle tenebre.