Parkours – di Filippo Bruschi

Salgo in una tempesta di neve. Il Théâtre de la Colline si trova a Gambetta, tra le vette del XX arrondissement. Quando nominate Gambetta in un discorso a tavola, per strada o nel métro, subito vi sarà risposto: un tempo (autrefois) era un quartiere piuttosto povero e ora è diventato carissimo (très très cher). È come un leitmotiv wagneriano: voi dite Gambetta e subito l’orchestra parte con un très très cher, autrefois populaire, mais maintenant très très cher, più o meno rielaborato. D’altronde le metropoli diventano sempre più esose, si sa, e i poveri, e pure la classe media, sono inesorabilmente sospinti verso le periferie. La pièce (inventeremo mai un equivalente italiano?) si chiama Déjà là e dura poco più di un’ora, scritta da un cantante (Arnaud Michniak). Sul sito colpisce una frase tipo «impossibilité d’être dans une parole commune». E qui sta il merito: i personaggi sono un discorso abortito: vorrebbero fare, ma non sanno come; soffocano, si dibattono, si feriscono, l’incapacità di agire nel pubblico tramutandosi in agonia del privato, malmenato dal linguaggio sociale proprio quando costui, infido, si finge estinto – la società non esiste, diceva Margaret Thatcher. Nulla di nuovo, ma detto con una sincerità da non professionista che fa bene, perché batte dove il dente duole. Corriamo al disastro?

E questo supera tutto quello che potrebbe essere odioso, giovinezze agli sgoccioli, mobilio ikea, tante bottiglie di birra sparse, loro son vestiti proprio male, ce stanno due maschi e due femmine, un lei e un lui a petti nudi – poi, per fortuna, spegnesi la luce. Per non dire del declino verso un lirismo microfonato e alla fine, paradossalmente, tutto si conclude a mo’ di videoclip, strumento per eccellenza dell’ego isolato ma bello gonfio d’immondizia. Qualcuno esce prima sbattendo la porta. Una signora accanto a me si rifiuta di applaudire malgrado le insistenze del marito. «Ce n’est pas juste». Senza fischiare. Usiamo la parola polis? Una buona cittadina?

Dalla Colline scendo verso gli arrondissements centrali; passo Père-Lachaise e poi Belleville, un tempo quartiere arabo, ora soprattutto cinese. Una storia interessante: il primo quartiere cinese di Parigi si formò alla fine degli anni settanta nel XIII arrondissement, un po’ residenziale e un po’ periferia con palazzoni, calmo e asettico. Qui invece è tutto molto più confuso, con camion che caricano e scaricano carne che gocciola sangue, supermarket murati di gente con annunci in mandarino (roba da far schiattar Marine Le Pen), gente più alta, gente del nord della Cina, mi ha detto una volta un barista, originario di Shanghai, con aria sdegnosa. I loro figli sono gli ultimi a chiamarsi con vecchi nomi francesi: Jean, Joséphine, Raymond, mentre molti figli di francesi da queste parti si chiamano Moïra, Nilo, Sherazade. Come cambia il mondo. Poi attraverso il Canal St Martin, République, fino al cuore della Parigi medievale, al chilometro zero delle cartine francesi (Notre Dame), risalendo rue de Rivoli e noti dintorni monumentali (Louvre, Comédie Française, Concorde), ed eccomi nei quartieri occidentali, da sempre identificati con gente ricca e di destra. Ci avviciniamo al fiume.

Ed è qui, non lontano dall’abitazione di M. Sarkozy, al Théâtre des Champs Elysées, che vediamo Don Pasquale. Non male, Don Pasquale. Corbelli si fa ormai coprire dall’orchestra, la Rancatore no, e la serata scorre gradevole sotto un gigantesco lampadario anni trenta tutto in vetro opaco. Non male, Don Pasquale. Certo meglio della Dama di Picche distrutta dal “grande regista” Lev Dodin che ho visto a Opéra Bastille. Bisogna ammodernare, si dice, rileggere e assecondare (ma chi?). E sia, ma non distruggere, devastare, insignificare; bisogna rispettare la bellezza del libretto-musica, e non plasmarla su prosa di terza mano, per non parlare di performances tutte regolarmente in salsa elettro-techno. E non sarà che invece di assecondare bisogna opporre, e che ci resta soltanto (esagero) la bellezza a cui credere, per opporci alla merda circostante?

E da qui eccoci partiti verso la campagna, verso la banlieue borghese di Vincennes. Vale certamente la pena di vedere il castello dove Diderot fu incarcerato tre mesi causa materialismo spinto. Rousseau andò a trovarlo, galeotto fu il colloquio, concepirono il Discours sur les sciences et les arts. Durante la Fronda Mazarino vi si rifugiò con la corte e il grande Le Vau ne approfittò per ristrutturare il Pavillon de la Reine. Poco lontano, in mezzo al bosco, c’è la Cartoucherie, complesso di otto teatri, di cui il più famoso è il du Soleil diretto dalla famigerata Arianne Mnouchkine. Ma noi andiamo all’Aquarium a vedere il primo capitolo di Finnegans Wake nella traduzione di Philippe Lavergne. Mettete da parte sospetti d’intellettualismo che alcuni joyciani dall’aria depressa vi hanno instillato: si gode, si fa l’amore con le parole; e non solo io, tutto il pubblico esce pieno di pizzicori e con gli occhi scintillanti come si esce dal letto dopo le capriole. Il regista è molto alla mano; Sharif, l’unico attore, un po’ meno, ma è stato talmente bravo che perdoniamo. «Quanto ci ha messo a imparare un testo che sfida ogni arte mnemonica?» «Tre mesi quest’estate, au bord du lac de Genève, alla fine ho fatto ricorso ai metodi dei monaci benedettini». E l’impressione è che non ce l’abbia raccontata tutta. Insomma, chiudiamo in bellezza e dalla Colline a Vincennes siamo scesi d’altitudine e saliti nel piacer. Eppure c’è qualcosa in comune tra qui e laggiù, qualcosa d’importante: l’idea di una sorta di io cosmico, dove non si sa se è il singolo che diventa mondo o il mondo che collassa nel singolo – «Here comes everybody» (Finn Wake). Di tutto questo la città potrebbe essere il simbolo reale: la città grande grande, costruzione di secoli, che giace in noi come una sorta d’inconscio in movimento. Here comes everybody. Le statistiche confermano.