Francesca Fini, Hacking the city (incursioni epicuree) – di Fabio Carnaghi

 

La città che si vive ma che non si pensa si prende gioco con la sua realtà di ogni utopia. È la città di anime di cemento armato, di asfalti sconnessi, di natura residuale infestante, di alfabeti graffiti per comunicare. È una città che non abbellisce la sua prosaicità, che non si preoccupa della sua estetica inesistente, ma che trova nel sonno una pausa per non ascoltarsi, finalmente. Da qui nasce il sogno di una notte di periferia, del vuoto, dell’assenza, del deserto. Nella solitudine la performance è un inseguimento rabdomantico verso l’atarassia. L’incursione underground fa razzia di ogni fallimentare progetto sociale ingabbiato nell’eco-mostro di un satellite urbano. L’individuo ritrova la dimensione intima della sua solitudine: il paradiso artificiale di una spiaggia massmediatica è l’inatteso rifugio dalle spettrali geometrie cementizie. Si compie la conquista di una serenità epicurea, purché la città dorma, dorma fino a diventare Atlantide, sommersa dalle onde pubblicitarie degli evanescenti ideali che l’hanno edificata.