Città / Civitas – di Gabriella Landini

 

CAPITOLO PRIMO

Città– spazio tempo geometrico

L’irrappresentabile fatto lettera di pietra.

Non posso non sentirlo, il rintocco, il metronomo, il grido, il richiamo, il pendolo. Non posso non sentire le campane del tempio. Anche volessi non sentirle, le sentirei ancora per quello che nei millenni è stato inciso dagli scriba d’obbedienza nei marmi, nella pietra, nell’anatomia dei corpi astrali, nel volo delle rondini, fin nei fili d’erba della più sperduta landa. Anche osassi non udire, sentirei ancora il rintocco della scansione temporale, mi rincorrerebbe ovunque sfidando le onde del vento nell’eco dilatato e propagato da ripetute sentinelle che si avvicendano al passo del soldato.

Quando il tempo ha un luogo rappresentato in cui esercitarsi, lì c’è il santuario- città, la cattedrale e la sua campana, la meridiana e il suo recinto, il sacro e il suo tempio, il labirinto con il suo mostro.

La città è il tempio della parola catturata, il crogiolo del discorso, il logos.

Il tempio è l’esemplificazione della razionalizzazione del tempo e del sacro nel recinto dello spazio geometrico della città: la spazializzazione del tempo diviene codificazione del ritmo, altrimenti improvvisato e immediato, privo di organizzazione. Il Kaos che precede ogni principio di origine è l’esemplificazione in immagine dell’irrappresentabile, poiché il caos esiste solo se esiste l’organizzato e si esplica e pratica unicamente nel sistematizzato come deragliamento del sistema. Il Kaos immaginato come pre-causa-prima, stato premateriale del cosmo, stato dell’informe primigenio precursore dell’universo: il non luogo della parola che non avendo origine resta originariamente forma altra, dalla quale si è voluto definire e circoscrivere il ritmo in aion, avente un principio di origine dispiegatosi cronologicamente da un ente metafisico legislatore.


Tic, tac, toc, tocco, rintocco. La scansione

La città è un gigantesco orologio e la cattedrale ne racconta in modo sublime il funzionamento. Osservando la metaparola cattedrattica che svetta nel–centro fulcro dell’urbe letteralizzando le leggi ritenute divine, dei numeri, dei pesi, delle misure, la cattedrale, il grattacielo, il tempio, il palatium, sono libri di pietra, percorsi labirintici per iniziati al segreto in essi racchiusi, disposti a una conoscenza d’illusoria lucentezza e trasparente, nell’idea che vi sia un mistero e che possa essere svelato, sempre riconducibile alla concezione di una parola ineffabile–che se giustamente non può dire se stessa non necessita neppure di enti extraparola che la definiscano in quanto cosa osservabile e asservibile–la parola “dice” nell’atto stesso in cui appare senza potersi riflettere in uno specchio di appartenenza.

Non diversamente da ogni tempio, antico o moderno che sia, la città è paradigmatica nel raccogliere in modo razionale  e canonico la varietà specifica  e libera, indeliberatamente casuale, dunque involontaria,  di narrazioni mitiche. Il tempio è una costruzione meta-simbolica che si erge nel fulcro–centro della città, ne è la sua riproiezione speculare: ne ripete forma e struttura; le sue navate sono strade che portano al locus, il centrum del labirinto, alla manifestazione del sacrum, esattamente come  ne è il palatium, la sede del potere laico. Nucleo radiante di quell’entità inscindibile che sono la città e le sue credenze come dominio della legge del cielo sulla terra: città che tenta di essere esaustivamente totalizzante come epicentro comunitario delle esigenze dell’umanità. E fallisce nel suo intento, perché le viscere che non può ripulire permangono a testimoniare la permanenza del mito che si vorrebbe addomesticato anche nell’arte.

CAPITOLO SECONDO

Luce e tenebra. Le viscere.

 La dea Cloacina era adorata dagli antichi romani come protettrice della Cloaca Massima: il sistema di fognature di Roma. La città, simbolo dell’entità solare dominante sulla terra, si erge in superficie verso il cielo e affonda nel sotterraneo terrestre, nello ctonio,–sua condizione indistruttibile –le sue fondamenta, circoscrivendone la temibile inafferrabilità e turbolenza atmosferica.  Il sotterraneo, l’oscuro,  diviene ciò che deve essere temuto, purgato, purificato, emendato. Il sotterraneo della città è la costruzione di un gigantesco apparato di dominio fondato sulla “divisione” di quanto viene teorizzato chiamarsi “natura”, sede della vita e della morte, da ciò che nei millenni si è definita la  civitas, come nostra capacità di conoscere, di distinguere di volta in volta  lo scibile e l’inconoscibile, nominandolo, appunto, inconoscibile,  ineffabile, e quindi di fatto  comunque, circoscrivibile.  Città–civitas come tentativo di inglobare l’elemento naturale in un glorioso  hortus conclusus, il paràdeisos, dove la divisione tra bene e male  viene organizzata secondo principi e credenze religiose in grado di garantire l’immortalità, come principio individuabile e storicamente rappresentabile.  Le magnifiche sorti della vittoria del bene sul male, della luce sulle tenebre, hanno caratteri identificabili nei divieti e nelle prescrizioni che a seconda delle epoche  si modificano culturalmente, mantenendo come invariabilità costante il controllo della soglia, su ciò che è permesso e su ciò che è vietato.  La divisione tra bene e male, tra luce e ombra, tra sano e malato, tra sudicio e pulito, tra ragione e follia, nella città diviene netta, diviene: frattura, rottura, crollo, a cui porre rimedio, mediazione, riduzione, farmaco, salvezza,  anziché – come avrebbe dipinto Leonardo da Vinci,  semplice sfumatura. L’urbe e le sue fogne, le tombe, il putrido, le masse di rifiuti, lì sotto il terreno del nostro passaggio, del nostro macchinale trafficare possono essere fonte di malvage pestilenze, di infezioni pericolose, di criminali nascosti, di nemici. Le cloache sono passaggi, sono frontiere, aprono all’ estraneo…  La città macchina coltiva e moltiplica quello che vorrebbe purificare e designa di volta in volta ciò che è  da definire infero.  Nelle sue viscere però, permane la memoria della potenza della vita, della nascita e della morte, che sarebbe da intendere altrimenti. I culti agresti della rinascita, delle terre emerse e della vegetazione, Proserpina, Feronia, la memoria della capacità taumaturgica di Gea che riconduce la potenza del corpo alla sua originaria forza di incalcolabile e ingeometrizzabile classificazione.

La città cosmo divide e specularizza fino a distruggersi per speculazione: Il corpo diviso dall’anima, il corpo parlato, il corpo che parla, il corpo diviso dalla mente, il corpo simmetrico. Uno che si divide in due, nell’idea androgenetica della prevalenza dell’uno: dell’uno che domina sul due; dell’uno. che domina sull’altro, fino a ritenere il corpo soma-cosa, oggetto, tavola delle verità imperscrutabili, fonte del peccato: del male, della caduta, della perdita della felicità, e condannato a una pena di eterna schiavitù in vita, e da cui solo la morte libera, è un’edificazione umana, comunemente chiamata: dominio. Non senza saggezza, gli antichi personificavano nella dea Persefone colei che libera dalla schiavitù, per il suo riapparire colma di fioritura al rinascere della primavera.  L’elemento ctonio, quindi, come essenziale alla vita. Si nasce e si muore nell’Aldilà.  Luce ombra, il chiaro e l’oscuro, scaturigine del nutrimento. Il suo daimon  di energia e potenza.

Se da un lato le viscere simbolicamente sono intoglibili per la loro ascendenza mitica e connesse allo stesso esistere degli umani, nello stesso tempo necessitano di un argine per poter far sussistere  la civitas nella forma in cui si è data nel corso dei millenni. L’uomo artefice governa l’imponderabile oltre le mura costruendo la fortezza del terrore. Di quell’imponderabile alimenta la paura e lo scongiuro. Se per Platone il poeta restava fuori dalla polis, perché ispirato, un posseduto dalla divinità, fuori di senno per effetto della manía, così il poeta per poter fare poesia– l’arte in quanto pragma del residuo mitico–che si esprime nell’immediatezza del verbo – vagito di fanciullo- sciamanicamente nella nostra civiltà occorre che  sprofondi in quel fenomeno del “descensus”, che si avventuri come Odisseo nella Nekya.  L’atto di attraversamento di un Aldilà favoloso, fantastico, mistico o favolistico che sia, riconduce sempre a un confronto con la paura della morte.  Morte simulacro, in una pretesa di consapevolezza dell’alterità, connessa, in questa organizzazione simbolica, alla sessualità, all’alterità, all’abbandono, al selvatico, al naturale, dell’originario, per  fare discendere e ascendere l’eletto riemerso dall’abisso a sapiente iniziato intronizzato al centro del labirinto.   L’Odissea, la Divina Commedia, l’Orlando Furioso, il Faust, sembrano essere concepiti in questa configurazione, seppure trascendano qualsiasi concezione iniziatica proprio per ironica impossibilità di esaurirne le interpretazioni e le traduzioni. Ragione questa che ripropone l’annoso  e ritrito quesito intorno al fare arte,  quasi fosse una pratica per eletti stigmatizzati da elevate infelicità sciamaniche.  Punto cruciale per la civiltà, è da intendere in maniera differente la portata del mitico nella vita umana, che nella civitas ha per effetto l’arte, e che lascia il benedetto e il maledetto nella contraddizione della ragione raziocinante, ma non della poiesis  che concerne l’Altro.  La parola- corpo nell’esistere  accorda, lega, slega, varia, ritma, ondeggia, arieggia, vola, piove… è felice. Inaccettabile questo per la civitas, che ritiene gli dei invidiosi della felicità umana.

Ma la città, artificio anatomico del corpo a differenza del corpo umano non possiede le stesse risorse, quelle che pretende di mortificare e finalizzare a un senso e a uno scopo,  non ne detiene la grandezza, l’originaria sorprendente possanza indistruttibile che è la vita stessa. Se la città tenta di governare la morte rappresentandola in ogni suo aspetto come  minaccia da cui proteggersi e salvaguardarsi,  diversamente il noi-corpo ha una risorsa inestinguibile  e imponderabile che nessun  conoscibilità o sua pretesa potrà mai comprendere esaustivamente in termini razionali.   E le invenzioni scientifiche lo dimostrano, anche l’irrazionalità è un aspetto della stessa razionalità, il suo contraddetto organizzato. E il Nulla non è mai abbastanza nulla, tanto da essere nominabile, perché il corpo sfugge alla specularità città-macchina e resta affidato ad Altro nell’infinito dell’universo.   Ciò che ci è dato all’atto di nascita, ciò che ci viene consegnato in sorte  diviene nostro destino, immensa occasione  per la semplice costatazione di essere giunti  a questa vita, e non occorrono significati e sensi metafisici  aggiunti per un evento tanto portentoso. La vita come assoluto è un infinito a cui la morte nulla può togliere. Per noi che siamo giunti, da non si sa quali lontane o vicine combinazioni di imperscrutabili elementi, a noi che siamo giunti in questo universo, la perennità resta; entriamo nel perenne del sasso, della conchiglia, del mare, del cielo,  e chiamarla rinascita, resurrezione, trasmigrazione, reincarnazione, è una rappresentazione irrilevante.  Importante, ciò che conta davvero, e sarebbe una rivoluzione, è che nessun elemento, meta-ente, ontologico, fenomenologico, e altro ancora da inventare domani, sia un dato da considerare prima della vita stessa, il detentore a priori delle sue sorti a giustificazione di ogni nefandezza.

CAPITOLO TERZO

Il labirinto – Modalità dell’orientamento- Il sacro- l’Omphalos ➞ segue nei prossimi giorni