Capitolo terzo- Città/Civitas- Il labirinto, modalità di orientamento- di Gabriella Landini



Andamento labirintico, potremmo definire il nostro viavai giornaliero in città, recandoci da un punto all’altro, per un motivo o per l’altro. Labirintoide è il modo in cui ci orientiamo, disorientandoci, abitualmente. Dopo una giornata di faticosi percorsi tra sensi unici, strade senza uscita, vicoli ciechi, ingorghi, in preda a ire funeste dirette verso altri conducenti di veicoli, che ravvisiamo in veste di novelli demoni da sconfiggere e superare al semaforo (con multa allegata), quando, esausti, finalmente, imbocchiamo le strade maestre, i grandi viali panoramici che ci portano diritti verso la salvezza delle mura domestiche, viene da chiedersi, richiusa la porta alla spalle, ma davvero non si potrebbe fare altrimenti e vivere diversamente? La risposta è, ahimè: no.

La città è labirinto.

La città-labirinto svolge, nella nostra concezione di societas, un ruolo determinante, proprio per il modo in cui si dà nel suo andamento, in quella tortuosità scartabellante c’è tutta la paideia di cui necessitiamo per appartenere al ciottolo, all’asfalto, alla cementificazione svettante del grattacielo, per appartenere anche a un obiettivo illusorio di condivisione e comunitarietà dei vincoli di potere. Così orientando e disorientando, giocando sull’inestricabile e sulla contraddizione, ci muoviamo abitualmente negli ambiti dell’essere–avere–sapere–potere, credendo che ci sarà un punto in cui saremo autorizzati, titolati, anzi, superspecializzati con permessi in scalate verticali a gradi di gerarchia piramidale che si espande in orizzontale, e si estende in esotici paesi e colonie racchiusi nel palazzo kafkiano.

La città -labirinto riproduce e realizza la concezione del tempo-vita gestito nello spazio, obbedendo al principio di elezione, selezione e non contraddizione.  Soltanto così il potere sussiste riaffermandosi in coloro, i pochi eletti, che giungeranno ai vertici per affiliazione e omogeneizzazione, tolta la differenza.

Muoversi nel labirinto significa munirsi di un ferreo filo di Arianna. Se Pollicino poteva confidare, per non smarrire il sentiero, nei sassolini, perché sperduto nel bosco, Arianna deve tenere un filo robusto e ben saldo da offrire a Teseo, nell’eventualità che il dedalo riservi sorprese defenestranti ai piani alti, o tagli aguzzini di fili da parte delle Parche, in visita alle pittoresche vedute osservabili dall’alto.

Tutta la concezione greco-classica riconduce il labirinto alla rappresentazione di un percorso di iniziazione, le cui prove fanno giungere l’iniziato a un più alto grado di conoscenza per accedere al  segreto primo e ultimo della scaturigine della vita.

L’etimologia della parola rimane incerta e oscura. La connessione che ha goduto di maggior credito fa derivare il termine da labrys (ascia bipenne) simbolo del potere, strumento di giustizia e di uccisione della Bestia-Minotauro in relazione al Palazzo di Cnosso a Creta. Ma, questa, resta pur sempre un’interpretazione e un’attribuzione, dato che la desinenza inthos rinvia a toponimo di appartenenza a una lingua pre-greca. Infatti, le fonti letterarie non sembrano riflettere la concezione originaria del labirinto. Si deve pensare alla ripresa culturale di un tema minoico od orientale e inoltre resta inverificabile in quale connessione si trovi con la nozione di “pietra”. L’idea che il labirinto sia una costruzione determinata e quindi un progetto architettonico preciso, attribuita a Dedalo, da daidallein, ben costruire, comporta già l’acquisizione della medesima concezione ancora attuale.

Sin dall’epoca in cui è nata la favola di Minosse e del Minotauro racchiuso nel labirinto dove, con l’amore e con l’inganno, scenderà a cercarlo l’eroe Teseo, il simbolo di forze ctonie che tentano la rivolta contro l’uomo ordinatore (ma insieme assoggettato agli dei), ha occupato la mente degli uomini, ispirando poeti, favolisti, pittori e artisti di ogni epoca.

Il motivo del labirinto da oltre tremila anni è un tema ricco di risonanze commiste di angoscia e di speranza, evoca la follia e la saggezza e tutto ciò grazie all’immagine al centro del quale o al fondo del quale giace “qualche cosa”, forse un mostro, forse un tesoro, forse un segreto, una rivelazione definitiva: è l’idea stessa del mysterium tremendum, della morte e della rinascita in quanto phanes sistematizzato. La spazio interno è un intrico di vie che illusoriamente possono indurre l’iniziato a credersi vicino alla meta, per poi accorgersi che la meta sempre sfugge e si allontana. Il percorso in direzione del centro  giungerà a compimento per i perseveranti destinati a confrontarsi  con il contorto, con l’intrigo, con l’impossibile. Il raggiungimento della meta obbedisce a una legalizzazione, nella sua codifica ipostatizzata. L’iniziazione comprende un complesso di pratiche di insegnamento rituali allo scopo di proiettare l’adepto a un livello superiore di vita per mezzo di un itinerario interiore che corrisponde al percorso esteriore.  Al centro del labirinto il discepolo sperimenterà la solitudine e l’incontro con il principio divino, un mostro Minotauro, un segreto, una conoscenza rivelata, la verità assoluta, le mele d’oro del Giardino delle Esperidi, il Vello d’Oro. E la risoluzione dell’occulto compete agli iniziati in quanto detentori di sapienze esoteriche.  Ma la soluzione è un ritorno al punto di partenza, nella circolarità in cui il potere nella ripetizione letterale si autoconferma. Con qualche variazione, con qualche riformismo, con qualche aggiornamento. Nel centro è dato lo “sbocco” nell’infinito, nell’aldilà, con una sorta di passaggio privilegiato all’immortalità.  Sfidare la morte e illusoriamente vincerla, rimanendo semplicemente vivi, o meglio dei sopravvissuti, oppure, ancora, perire da eroi e accedere nell’immediato alla gloria immortale, è uno dei tanti effetti della credenza nella potenza iniziatica del sistema città-labirinto, che si ripete in ogni guerra o lotta fratricida o gara concorrenziale, dove l’obiettivo principale non è il “come vivere”, ma come non morire sacrificando l’altro. La città labirinto con le sue torri svettanti a toccare il dio cielo, ci appare luminosa, sfavillante promessa di salvazione, e di questa promessa noi non interroghiamo i presupposti razionali, più precisamente ciò che noi chiamiamo cultura. Li consideriamo imperituri, presi in un automatismo d’artificio che consideriamo perfino naturale, zoologico, e li subiamo in quanto tali, senza farci domande.

Ciascuna delle prove da affrontare nel dedalo conduce al raggiungimento vittorioso della meta simbolica di potenza-sacralità-immortalità.  Le nozze sacre di Teseo e Arianna, a conclusione della loro vicenda, tendono a ripetere e riconfermare la ierogamia cosmica dell’unione del padre cielo con la madre terra, onde rinnovare la fecondità dei campi.  Lo schema della labirinticità del cammino nella vita viene rinarrato nelle favole dove in seguito al superamento di innumerevoli prove i protagonisti giungono alle sospirate nozze.

Il centro è il punto di convergenza fra passato e futuro, il locus della conoscenza, il crogiolo del risorto, dove si condensano le potenzialità per l’avvenire.  Riguardano questo aspetto tutti i riti  simbolici di passaggio di morte e rinascita, infatti nelle incisioni rupestri dell’Età del Bronzo motivi labirintici erano raffigurati sulle tombe. Ritorno dell’individuo nel grembo della madre terra, la regione sotterranea, e la strettezza delle circonvoluzioni sarebbero associate alla porta stretta uterina della nascita.

Se il labirinto-città è la rappresentazione discorsiva razionale della padronanza sul viaggio della vita, nondimeno questo viaggio ha una verità rivelata letterale da acquisire: un viaggio chiuso destinato a riproporsi in una variazione dello stesso modello. È un itinerario circoscritto intorno a una rivelazione–verità posta a fondamento, un metaviaggio: epi- teo -onto-logico dove al suo culmine sarà ammesso solo chi ha interamente assunto e fatto proprie tutte le convinzioni e le modalità richieste per fare parte di un determinato assetto culturale di potere.

L’alterità vi sarà ammessa unicamente come sconfitta, incapacità, trasgressione, demenza, ma mai come differenza, come altro indefinibile, perché il percorso iniziatico, essendo un cammino verso la salvezza, parcellizza l’alterità in entità identificabili e significate, le nomina in quanto portatrici di bene e di male, sono entità amiche o nemiche, faste o nefaste, quindi tende a sottoporle al proprio dominio includendole oppure eliminandole. Sempre in nome di un bene supremo. La sintesi superiore di hegeliana memoria.

Ma nulla è più lontano dall’ “operare artistico” dalla concezione magico-cabalistica o di carattere iniziatico del labirinto. L’arte non s’impara, come il sesso, l’arte è nel farsi stesso, nell’atto di parola. Né prima, né dopo, avviene e diviene nell’istante contingente. L’autorevolezza, l’autorizzarsi, la responsabilità si dà nell’atto in cui ci si ammette a fare, parlando.  All’idea del labirinto come una costruzione dalla quale si entra e si esce e nel quale il viaggio trovi la “soluzione” è assolutamente  estranea  la pratica dell’arte in quanto poiesis. L’aleatoria arbitrarietà dell’atto inventivo in quanto ignoto e in quanto Altro e proveniente da Altrove, e dunque: insituabile, non risente del principio di realtà a cui il labirinto farebbe riferimento come regno della difficoltà e dell’impossibile.  Principio di realtà definito in quanto sistema di “saperi” determinati e acquisiti. L’idea che aveva Freud del principio di realtà, poi ripreso da Lacan negli anni Cinquanta, era  l’effetto dell’incontro della parola con Altro, che attraverso traduzioni e malintesi ha per esito l’evento contingente.  Ma essendo entrambi gli autori citati dei tra–passati, nella mirabile condizione Entica-Aldilà, sono anch’essi, ahinoi, entrati nella metafisica del classico d’autore, dignitari del Palazzo di Cnosso, con annessi e connessi, commentari e lapidi. Sicché, il celeberrimo principio di realtà resta per noi moderni semplicemente la tradizione delle teorie della realtà tout court, senza lettura alcuna, e quindi senza tradimento (senza che possa scaturire alcunché di inedito fra gli spazi vuoti, saturi d’ignoto, degli scritti che museifichiamo nella classicità); resta semplicemente il noto, il confermato e quindi l’applicabilità nella polis di una determinata rappresentazione della verità di una concezione del mondo e dell’insieme delle convenzioni delle nostre credenze già consolidate.  Ciascuna invenzione, se proprio volessimo fare una forzatura teorica, avverrebbe per effetto del principio d’irrealtà,  o meglio, per dirla con gli antichi, l’invenzione avviene nel delirium, cioè nell’uscita dal solco, più esattamente: al riaffiorare inesauribile del mitico, come capita nel sogno, il quale  attinge  alle forze mitiche ineliminabili che ci appartengono nascendo e che sono particolarmente manifeste nell’infanzia.

La parola determina ritmi, scandisce il va e vieni, i ritorni e le partenze, le ripetizioni, è labirintica senza geometrie e senza misurabilità dello spazio tempo, è labirintica nell’andamento del suo ritmo che non è un tempo calendarizzato, cronologico.  Originariamente il termine aveva valenze di grande interesse, ma è sempre stato celato dal prevalere della mitologia antica: il labirinto come combinazione della spirale e della treccia, raffigurazione dell’infinito in divenire della spirale e del ritorno differito per quanto riguarda la treccia e le allegorie con i motivi della danza, basti pensare alle descrizioni di Omero, da cui si può risalire alla  composizione coreografica del movimento.

Il labirinto come danza e come ritmo, ma anche metafora di complessità, groviglio, difficoltà lo si ritrova ripreso in tutte le epoche. L’analogia fra la difficoltà e la traversata dell’impervio sconosciuto, astruso, nell’arte, nella poiesis. Il percorso comporta lo straniamento, dove il viandante, non già un iniziato, bensì un itinerante, opererà una trasformazione a seconda del punto in cui si trova; più gli ostacoli appariranno ardua impresa, più il nomade, che non sarà un adepto, scoprirà risorse e virtù insospettate non riconducibili alle nozioni precostituite del sapere–­potere, e il sapere risulterebbe in questo caso effettuale.

Se nella concezione pervenutaci dalla tradizione la meta da raggiungere è il centro del labirinto, luogo di rivelazione pertinente al sacrum, dove l’incommensurabile incontra il suo punto simbolico e diviene destinazione ultima, la labirinticità del fare vivendo poietico fa riferimento all’interminabile del viaggio, dove il filo non si estingue, la conclusione inaugura il rilancio, e l’orientamento è obbedienza alla parola e dunque, è essenzialmente ascolto.

Quindi non più un sistema fortificato per difendersi dall’oscuro (l’intruso) nella caratteristica delimitazione del labirinto verso l’esterno nella continua inversione delle direzioni del movimento, quasi un pendolo all’interno, ma come l’emergere del chiaroscuro in ciascun atto di parola nel prevalere del movimento della spirale.  La città-labirinto orientando la vita nell’analogo del cammino della ragione, si costituisce a partire dall’idea di centro, nel quale raccogliere e governare in un unico punto il passaggio–soglia verso l’alterità, ciò che è Altro, e che per antonomasia è la morte.  Ma il centrum come punto simbolo dell’incommensurabile, è destinato a restare illocalizzabile, irrapresentabile, inoccupabile, e quindi un punto vuoto: l’Omphalos che non è simbolo dell’origine del mondo, ma piuttosto “ombelico del sogno”.

La credenza nel dominio del punto vuoto facendone un punto pieno, senza fughe, senza stranianza, è ciò che nella storia della cosiddetta civiltà viene chiamato totalitarismo.

È da un Altrove che muoviamo i nostri passi, è verso un Altrove che ci dirigiamo.