Capitolo quarto – Città/Civitas- L’Omphalos- La soglia- Il giardino- di Gabriella Landini

Immagine di Stefania Pollastri

 

L’Omphalos riproduce a livello simbolico il punto topico di congiunzione della terra con il cielo, volto a stabilire la correlazione tra le divinità celesti e la condizione ctonia a cui è destinato l’umano,  e che corrisponde nella cultura occidentale al post adamitico.  I riti che si svolgono intorno all’Omphalos in quanto punto vuoto, comunque sempre rappresentato nello spazio e calcolabile (dato che il vuoto non è il silenzio), vengono quindi a definire un punto  spazio- temporale preciso.

Il dominio del pensiero razionale non può fare a meno di questa rappresentazione per definirsi tale, non potrebbe nemmeno erigersi senza l’organizzazione di un tempio, e sua conseguente consacrazione.  Solo in questo caso i dominatori divengono detentori di un luogo in cui si decidono le sorti della vita e della morte dei cittadini.  Non c’è rivolta, rivoluzione, colpo di stato, scontri tra poteri “detti forti” che non dia l’assalto al palazzo e ne cambi gli assetti precedenti.  Durante la Rivoluzione Francese la religione cattolica venne messa al bando e Nôtre Dame venne rinominata “Tempio della Ragione”, diventando il teatro di manifestazioni di propaganda del nuovo governo. Non poteva essere diversamente, se si tiene conto che un potere non investito di sacralità non trova un efficace “fondamento” per il dominio.

Le prove iniziatiche, le filiazioni di ogni genere, scandiranno i gradi di percorrimento e le scansioni temporali dell’andamento di una vita tenendo a fondamento dell’impianto il principio causale discorsivo strutturante la razionalità che diviene il modello a cui fare corrispondere il percorso di inserimento  nella comunità –società.  Il cammino impedito viene prefigurato da una concezione a priori, ipostatizzata in partenza,  il tempo vi è rappresentato come  moto perpetuo di morte e rinascita, costruzione e distruzione.

L’iter perfectionis diviene un percorso tortuoso dove l’adepto si troverà sempre in posizione di candidato a raggiungere l’Omphalos,  la soglia e ponte con l’aldilà, riservato ai pochi che riusciranno a raggiungerlo. Ma il punto vuoto, in cui dovrebbe avvenire la trasfigurazione, il cambiamento del corso degli eventi del neofita non è mai una rivelazione particolare, eccentrica, ignota, a cui il singolo perviene in modo inedito, ma è partecipazione del singolo ad una verità rivelata,  ad un sapere già dato, ad una conoscenza già nota,  disvelamento di un supposto segreto custodito che comprende una visione unitaria  e sistematica dell’universo ordinata secondo un criterio che fa riferimento alla totalità.

Il centro-omphalos diviene quindi punto di convergenza e di comunicazione con la divinità, il luogo rituale e sacro fondante la pratica comunitaria.  L’ombelico-omphalos, simbolicamente considerato il centro del mondo, sede spazio temporale del phanes, manifestazione sacra dell’origine è una localizzazione spaziale anche del punto vuoto da situare e significare per detenere il potere sulla parola, e sulla libertà di parola; parola simbolo potente  che designa l’avvenuto in illo tempore dominio su essa. Nelle chiese gotiche l’omphalos veniva suggellato da una pietra, o da un segno al centro del presbiterio, in corrispondenza del punto più alto che rappresentava l’ascensione.

Il Rig Veda indiano illustra l’ombelico dell’increato e l’ombelico di Vishnu che germina il loto dell’universo manifestato. Così nell’Omphalos di Delfo, secondo Platone, si era stabilito il dio Apollo dopo aver sconfitto il serpente Pitone, per guidare il genere umano.

Il betilo eretto da Giacobbe, come i menhir celti, o la pietra dell’Arca dell’Allenaza nel tempio di Gerusalemme, o il nabhi, centro della ruota immobile, l’albero di Bodh Gaya ai piedi del quale Buddha giunse all’illuminazione, o anche il poros di Betlemme stanno a indicare quanto sia indispensabile la sacralizzazione del sacrum e della parola in luoghi tangibili di culto affinché il potere avvenga, divenga e si disponga in una mito-loghia su cui poggiare e sussistere e permanere temporalmente. La letteralizzazione designata loghia è un immaginifico, presunto impadronimento del punto vuoto, del silenzio, della voce, e del phanes in quanto parola stessa.

Quello che universalmente viene chiamato pensiero razionale, risulta un enorme sforzo di riduzione e riconduzione a un principio unificante di quell’aspetto che viene impropriamente definito “mitico”,  impropriamente dal momento che si esprime nell’inconsapevole ed è quindi di ardua circoscrivibilità. E la grande riduzione, avvenuta anche nella coltivazione e scelta delle piante commestibili dall’uomo, non poteva essere fatta che per via di semplificazione. Quella semplificazione avvenuta per cultura, e in nome di una “cultura certa” ha tolto la particolarità, la singolarità, la specificità delle differenti costumanze.

Dunque, tutto il pensiero razionale è un immenso apparato che governa la soglia, anzi, il pensiero razionale è di per sé soglia che pretende di estendere la propria conoscenza oltre la soglia ponendo un al di qua e un al di là di quel limine che gli rimane irrimediabilmente imperscrutabile in entrambi gli ambiti, sia quello definito immanente che in quello trascendente. Innegabile che percorrendo, descrivendo, delineando, definendo, nominando, costruendo millenni di soglia, di questa qualcosa si impara; di quella soglia viviamo, di quella soglia facciamo patria, nazione, territorio, teorie esaustive anziché parziali. Tutto l’apparato discorsivo funziona da scriba-guardiano situato sulla soglia.

La struttura urbana comunque non poteva, fin dal suo sorgere, e tuttora eliminare definitivamente l’aspetto mitico connesso a ciò che noi chiamiamo sylva, cioè la natura incolta e selvaggia. Così il giardino nelle forme più varie e disparate fa la sua comparsa nella struttura urbana. Ne diviene componente irrinunciabile in quanto testimonianza della presenza del dio sulla terra, memoria di una condizione perduta, inaccessibile, a causa della coscienza di caducità dell’uomo. Il giardino, dunque, come luogo esemplificativo dell’infinitezza del dio, che però rimane quasi una citazione dell’imperscrutabile Paradiso divino, e memoria della condizione dell’uomo prima dell’invenzione del tempo, quindi memoria di un tempo non cosmogonico e astorico che fino alla metà del secolo scorso era concesso solo alle rare popolazioni selvagge non pervenute a contatto della civiltà.  E se da un lato il giardino rappresenta una parzialità finita di compartecipazione all’infinità divina, è pur vero che anche il giardino più artificiale e organizzato, ecosistemico, mantiene un carattere di sospensione delle leggi urbane, si caratterizza per essere un’oasi, un intervallo, un luogo altro. Il giardino in tutte le sue strutturazioni formali, e malgrado esse, restituisce all’umanità un accenno di altro, un’imponderabile apertura verso altro, un alcunché di sconosciuto e imprevedibile. Se la città non ammette il terzo e si caratterizza per affermazione della contraddizione (eretta a conflitto) risolvibile solo per mediazione degli opposti, e dunque come sintesi superiore di hegeliana memoria, a non essere ammesso è il terzo, tertium non datur, ammesso, è tuttavia l’androgino, e non per accoglimento dell’Altro,  ma in quanto unificazione del due in uno. Il giardino quindi, seppure in una parzialità, sfugge all’intento che lo vorrebbe comunque regolato, non di rado organizzato e potato come un labirinto erbaceo.  Ma una stanza di siepi non sarà mai una stanza di muri, e tutte le rappresentazioni, per quanto efficaci nella costruzione della scena sono destinate a fallire l’intento che le vorrebbe padrone dell’impadroneggiabile.

Il giardino è il luogo atopico in una città, sebbene ci illudiamo di essere garantiti e protetti passando per cancelli e muretti, l’ estraneità di un albero, il suo esotismo, fa sì che quel che ci accade ci esponga comunque a un incontro imprevedibile. Incontro casuale e non finalizzato, ci offre un residuo di selvatico che appunto riguarda l’infinito. Le piante racchiuse in un orto botanico per quanto possano essere assimilabili agli animali racchiusi in uno zoo, mai si sottometteranno, seppure ingabbiate, alla nostra stretta sintatizzazione: ribelli e imbelli saranno soggette al vento, al calore, alla neve, più che alle nostre pretenziose altezzosità. Eppure, se ci è data la fortuna di sentire, quel sentire ci esporrà ad altro, e dall’indifferenza passeremo all’attenzione verso ciò che è differente. Il giardino, orto botanico, chiostro, parco… ha tante sfumature che vanno dal giardino ornamentale al parco semiselvatico.  Il giardino risente di un altro tempo, di un tempo in cui il fare non viene finalizzato, un luogo di ozio, di godimento, di ludus, di contemplazione  dell’immenso nell’apertura di cielo.

L’etimo di giardino, proviene dall’antico francese yard o dal francone gardo, significa “delimitazione”, “recinto”, esattamente come l’antica parola persiana pairidaëza (luogo recintato) che in greco diventerà paràdeisos, paradiso: rivelando così attraverso il nome l’irrinunciabile importanza del giardino. L’hortus conclusos  entro il quale la natura non è la terrorizzante” selva oscura” irta di insidie, in cui l’uomo era stato cacciato a espiazione del peccato, il luogo esclusivo in cui egli, non troppo diversamente dal creatore, ha saputo profondere ogni delizia, lo spazio privilegiato e difeso dal muro che lo definisce e conclude esorcizzando il pericolo esibendo una natura amica e generosa. Nel giardino la presenza dell’acqua, una fontana di acqua limpidissima, la cui bellezza adduca diletto e felicità, la ricchezza della vegetazione e degli animali, e in primis e l’alto mura di cinta del giardino definisce lo spazio privilegiato e concluso. Il Paradiso. La città ingloba e mette in scena in una solenne rappresentazione l’idea metafisica che ha della natura. L’etimo rivela pertanto, e nel modo più esplicito, che è metafora paradisiaca strettamente annodata al suo nome è almeno a partire dai persiani insita nel giardino: è intrinseca nella sua bellezza fragrante e colorata nella quale cessa l’umana fatica e si manifesta l’insopprimibile bisogno di felicità che a partire dai paradisi persiani era passata alla Grecia ellenistica.

Gli horti assumeranno nella Roma imperiale un posto sempre più rilevante  sia nel territorio urbano ed extraurbano  che nella vita privata dei cittadini. L’alto muro di cinta che separa dalla città definisce lo spazio privilegiato dell’hortus conclusus, nel quale il sogno del paradiso si vena di terreni piaceri e di erbe officinali. Qui non è tanto l’incanto di un’eterna primavera a esorcizzare l’angoscia precarietà del vivere, quanto invece  la magia della fonte che protrae  senza fine il tempo della giovinezza e dei giochi d’amore.

Adamo cacciato dal paradiso, padre di Caino, fondatore di Caina, la prima città, ha perduto la sua condizione mitica, è un caduto e in questa caducità colpevole si insinua la credenza di un uomo aprioristicamente colpevole, sempre in cerca della purificazione perché afflitto dall’imperfezione di essere mortale. L’immortalità diviene condizione eletta e paradisiaca, condizione eroica,  per un destino immortale che nel giardino trova la sua citazione terrena.

Ma il giardino si presta a ogni sorta di malinteso, se da un alto viene costruito recintato, quando vi ci si inoltra il recinto non ha più efficacia alcuna, perché  il giardino diviene spalancamento verso il cielo dove l’imperfezione smentisce se stessa nella particolarità della foglia, nella singolarità di un tronco, la cui  forma resta imparagonabile e non omogenea alla nostra percezione. Un tronco storto sarà per noi perfetto quanto un fusto diritto, e nonostante gli sforzi di giardineria avvertiamo come la perfezione di ogni singolo elemento appaia in già natura.  E se il selciato ci fa pensare di essere governatori della terra, il giardino ci sbilancia verso il cielo e ciascuno di noi, credendo di essere in terra, cammina in questo pianeta in cielo, sospeso per aria, per ragioni che a noi restano ancora imperscrutabili, almeno fino alle colonne di Orione.

Il giardino si offre all’ospitalità, ospita in sé la città per una casualità del fare e dell’incontro, luogo di humanitas e di intelletto, sfugge alla macchina- città, all’ingranaggio, e per questo il fare nel giardino è libero, non soggiace alla volontà, ma all’accidentalità, all’occasione, all’istante. Prendere o lasciare, nell’irripetibile.  Il labirinto è una forma mentis ripetitiva, mentre il giardino è l’attimo contingente, l’azzardo, dove l’atto nel suo farsi non ha strade di  ripercorrabilità. L’attimo vi appare nell’eternità. Il giardino è il luogo dell’arte del fare, della cultura della libertà del fare, del vagabondare, dell’amoreggiare, del gioco, dell’oziare e del pensiero. Quando lo associamo a un accenno di Paradiso, se da un lato ci rende memori dell’esclusività del dio, che non vi fa accedere l’uomo prometeico colto da hybris, o condanna il colpevole alla biblica imperfezione per volontà di conoscenza, dall’altro  quel giardino nel mezzo delle nostre megalopoli ci ricorda la nostra stessa perfezione originaria, è testamento della particolarità perfetta nella quale nasciamo e mette in discussione proprio la credenza che crede di affermare.