Tratti/Il gioco degli amanti – di Pablo Montoya

Avvenne in un caffè. Io cambiai nome. Il suo, credo, era altrettanto falso. Se andò così fu per una felice coincidenza di amore e inganno. Lo sapemmo entrambi fin dal primo giorno. Per questo non si affacciarono mai i sospetti. Se mai vi fu un barlume di tragedia in quella storia, si attenuò nella condivisa consapevolezza che i volti erano incapaci di specchiarsi in ciò che usciva dalle nostre bocche. In effetti ci piaceva parlare. Entrambi, nondimeno, coglievamo i limiti del dialogo. Non arrivammo mai a scoprire nostri nomi. Il lavoro e la professione li sfiorammo a malapena. Il luogo in cui vivevamo fu uno dei segreti impossibili da infrangere. Quanto agli sguardi, è vero che al di là del desiderio un abisso si profilava con nitidezza inquietante. Quel vuoto ci attraeva. Ma anziché scaraventarci in esso con furia, con una furia simile lo rasentavamo. Se il nostro amore si vide sprofondato in una circostanza difficile, che a tratti poté arrivare a essere insopportabile, fu perché attraversammo il fuoco senza bruciarci, perché camminammo su corde flosce senza mai cadere, perché frequentammo il marcio e nulla volemmo odorare. Alla fine disse di fare quel lavoro. Di chiamarsi così. Giurò che il suo amore era vero. Io preferisco ricordarlo immerso nell’anonimato. Alieno a una professione definita. La sua immagine sepolta in un velo brumoso. Il nostro amore consistette nel saperci non già sfigurati, e nemmeno amorfi in mezzo a una successione ininterrotta di maschere, ma nell’essere restii a qualsiasi identità. Ci vedevamo sempre in un caffè. Poi percorrevamo strade che posso, invece, citare con precisione. E finivamo in qualche albergo. Potrei perfino ricostruire gli ingressi di quelle case. Precisare i passi affogati da tappeti nei corridoi che precedevano le stanze in cui entravamo. Descriverli come luoghi umidi alle cui pareti, se vi erano specchi, non producevano in noi alcun effetto. I nostri occhi disdegnavano quelle morbose ripetizioni. Decidemmo, un giorno, di porre fine ai nostri incontri. La passione dei sensi toccava allora il suo momento più pieno. La nostra immaginazione si alimentava delle parole con una certa efficacia. Non c’era tedio in quella rappresentazione in cui la verità aveva nausea di se stessa. Non ci presentammo agli appuntamenti. Non ci cercammo mai in quelle dimore del piacere. E non cercammo le eventuali persone in cui eravamo inciampati. Né il negoziante dal riso nervoso. Né il taciturno venditore di fiori. Né il pittore che una volta ci parlò della memoria come se fosse una crepa in cui stanno solo il silenzio e tutto il tempo. Ricordo la notte dei saluti. Guardai il suo volto inafferrabile. Era un riflesso del mio. Pensai che il nostro addio potesse fare anch’esso parte della menzogna.

 

 

Sucedió en un café. Yo cambié mi nombre. El suyo, creo, también era falso. Fue así porque hubo una grata confluencia de amor y engaño. Ambos desde el primer día lo supimos. Por eso nunca se presentaron las sospechas. Si existió un viso de tragedia en esa historia, él se amortiguó en la compartida experiencia de saber que los rostros eran incapaces de mirarse en lo dicho por nuestras bocas. En efecto, nos gustaba hablar. Los dos comprendíamos, no obstante, los límites del díalogo. Jamás nos enteramos de nuestros nombres. El trabajo y la profesión apenas los abordamos. El lugar donde vivíamos fue uno de los secretos imposibles de franquear. En cuanto a las miradas, es verdad que más allá del deseo, un abismo aparecía con transparencia inquietante. Ese vacío nos atraía. Pero en vez de arrojarnos a él con delirio, con un delirio similar lo bordeábamos. Si nuestro amor se vio sumido en una circunstancia difícil, que en algunos momentos pudo haberse tornado insoportable, fue que caminamos por el fuego sin quemarnos, cruzamos cuerdas flojas sin jamás caernos, transitamos la podredumbre y nada quisimos oler. Al final dijo hacer tal oficio. Llamarse así. Juró que su amor era verdadero. Yo prefiero recordarlo perdido en el anonimato. Ajeno a una definida profesión. Escondida su imagen por un velo brumoso. Nuestro amor residió en sabernos no desfigurados, ni siquiera amorfos en medio de una sucesión no interrumpida de máscaras, sin en ser reacios a cualquier identidad. Siempre nos veíamos en un café. Luego recorríamos calles que yo puedo, en cambio, nombrar con precisión. Y terminábamos en hoteles. Podría incluso reconstruir los vestíbulos de esas casas. Precisar los pasos apagados por tapetes en corredores previos a las piezas donde entrábamos. Describirlos como lugares húmedos cuyas paredes, donde había espejos, no nos producían ningún efecto. Nuestros ojos desdeñaban esas morbosas repeticiones. Decidimos, un día, acabar los encuentros. La pasión de los sentidos pasaba por su momento más pleno. Nuestra imaginación se alimentaba de las palabras con una cierta eficacia. No había tedio en esa representación donde a la verdad le daba náuseas de sí misma. No acudimos a las citas. Nunca nos buscamos en esas moradas del placer. No buscamos a las eventuales personas con quienes habíamos tropezado. Ni al comerciante de risa nerviosa. Ni al taciturno vendedor de flores. Ni al pintor que una vez nos habló de la memoria como si fuera un agujero donde sólo cabe el silencio y todo el tiempo. Recuerdo la noche de la despedida. Miré su rostro inasible. Era un reflejo del mío. Pensé que nuestro adiós podía ser también parte de la mentira.

© Pablo Montoya, traduzione di Ximena Rodriguez Bradford

Pablo Montoya è uno scrittore colombiano ancora sconosciuto al pubblico italiano. Fra le sue opere narrative segnaliamo Lejos de Roma (Alfaguara 2007), El beso de la noche (Panamericana 2010) e Adiós a los próceres (Random House-Mondadori 2010). Il suo racconto L’angelo nero è apparso di recente sulla rivista “Nuova prosa” (n. 56/57, 2011). Nel 2007 ha pubblicato Trazos, raccolta di prose poetiche ispirate ai capolavori dell’arte mondiale, di cui pubblichiamo qui alcuni estratti in anteprima.