Metal Purge – di Alan D. Altieri

Tratto da Hellgate (TEA, 2009).

(Purga Metallica)
Racconto 

 

 


Il mondo è un manicomio

in cui l’universo

getta i propri dementi.

Voltaire

 

*   *   *

ZERO

Calava nel ventre della notte.

Pioggia.

In un altro tempo, sapeva di erica selvatica, terra bagnata, foglie cadute. In questo tempo, era una mescolanza miasmiatica, acida. Monossido di carbonio, residui da cloaca, sterco di cani. Il tutto a formare un unico plasma tossico.

Il camion emerse dall’atmosfera viscida. Trenta tonnellate, pneumatici artigliati, parabrezza scheggiato dagli impatti dei proiettili. Uno dei tanti, troppi residuati dell’ultima guerra del petrolio gettati in pasto terminale all’industria globalizzata.

La cabina di guida si ergeva come il cranio di un dinosauro carnivoro. Più indietro, più in basso, grossi tubi di gomma con rinforzi elicoidali d’acciaio si attorcigliavano al sistema di pompaggio, simili a tentacoli deformi. Il tutto era un ibrido tecnologico mostruoso. Un unico scopo: risucchiare, drenare. Purgare.

L’ibrido mostro metallico si aprì la strada nella pioggia e nelle tenebre.

 

 

DIECI

Il poliziotto di guardia tossì nella mascherina bianca. In teoria doveva proteggergli naso e bocca. In pratica non proteggeva un accidenti niente. Non contro quell’aria putrida.

Era un ragazzo, nemmeno vent’anni, uscito due mesi prima dalla Scuola di Polizia. Continuavano a dargli i turni più merdosi. Logica inevitabile, ineluttabile. Milano, fine gennaio, 3:14 AM, meno cinque gradi celsius. Davanti a lui, via Fatebenefratelli era oscurità inquinata e pioggia acida. Dietro di lui, il portale della questura centrale era un antro cavernoso. Alogene livide filtrate da aria color antracite. Brina nera sui cristalli corazzati del corpo di guardia.

Dietro la brina, ombre. Uomini in giubbetti anti-proiettile, armati di fucili d’assalto.

Uomini in stato d’assedio.

 

 

Achmed Muhammad Rashid esalò dalla pipetta di plastica annerita. – Non vedo una merda di niente.

L’aria nella BMW era satura del tanfo della crystal-meth, meta-anfetamina in cristalli. Roba più additiva dell’eroina, più letale della cocaina in crack. Erano ore che Rashid andava avanti a spararsela nelle sinapsi.

– Cos’è che ti aspetti di vedere, coglione? – La donna seduta accanto a lui allungò mano la sinistra guantata. Ripulì un varco nel parabrezza opaco di condensa. – Tua sorella che succhia cazzi nel nome di Allah?

– Attenta a come parli, puttana. – Rashid digrignò i denti marci dietro la barba nera come petrolio grezzo. – Non saresti la prima cagnaccia bastarda infedele a cui taglio la gola.

– No? La prima chi era, testa di stracci mangiammerda? – Letizia Rosaria Tanzi, labbro leporino e gengive violacee dalla piorrea, gli rivolse una smorfia grottesca: la sua versione di un sorriso. – Tua madre transessuale o tua nonna sifilitica?

La mano di Rashid scivolò verso la Makarov calibro 9 infilata alla cintola.

– Forza, testa di stracci – Rosaria serrò le dita sul calcio del revolver Smith & Wesson 38 Special a canna corta. – Provaci.

– Piantatela, idioti! – La voce negli auricolari dei Nokia ultima generazione era distorta dalla statica atmosferica. – Siete là per fare un lavoro. – Restava comunque la voce di un capo. – Fate il lavoro e basta. – La voce DEL capo. – I conti privati li regolate dopo.

Tanzi riportò lo sguardo sulla strada viscida. Rashid, al volante, lasciò perdere la Makarov e tirò un’altra boccata di chrystal-meth.

 

 

NOVE

La Curva Nord sta bruciando. Letteralmente.

Sono venuti dentro con intere taniche di kerosene. Ultrà: le nuove orde barbariche. Centinaia, migliaia di teste di cazzo zeppe di nichilismo terminale.

Prima hanno linciato l’arbitro e castrato un guardialinee. Poi hanno fatto dilagare il kerosene sui filari di sedili di plastica e hanno dato fuoco. Adesso due terzi dello Stadio Meazza sono invasi dalle fiamme. Gli spalti svaniscono nel fumo acre della combustione ad alta tempratura. Il Battaglione Lambrate, Polizia di Stato, Divisione Anti-Sommossa, combatte e sfonda teste di cazzo. Di ultrà ce ne sono già parecchi a faccia in giù sull’erba sintetica fradicia di sangue. Niente di nuovo, niente di inedito: benvenuti ai riti delle tribù cannibali della domenica pomeriggio.

Fuori c’è Armageddon. Ma dentro, nelle viscere profonde del Meazza, tra labirinti di cemento e metallo, c’è quiete.

Sono in quattro in quella cripta piena di tubazioni rugginose. Sono arrivati là sotto camminando tra pozze di tenebre, superando il chiarore delle rade lampade industriali. Sono stati chiamati. SMS, e-mail, busta senza nome, telefonata ignota.

– Che cazzo aspettiamo qua sotto, eh? – Ante Gromovic gira lo sguardo sui volti per metà in ombra. – Qualcuno di voi lo sa?

Nessuna risposta. Solo espressioni dure, chiuse. Achmed Rashid, kefiah avvolta attorno al collo, rimane appoggiato a una parete corrosa dal salinitro. Letizia Tanzi, labbro leporino simile alla ferita di un artiglio, guarda fisso nel buio. Gromovic sputa una boccata di tabacco sul pavimento costellato di merde di ratto.

– Perché non lo mandi giù? – c’è una specie di sorriso sulla faccia di Carmelo Nitto. – Magari ti aiuta a digerire.

– Perché non ti fai inculare? – Gromovic va faccia a faccia con lui. – Magari ti aiuta a dire meno cazzate.

– Perché non ti apro la gola? – Il pollice destro di Nitto fa uscire la lama del SOG-Combat ad apertura mano-singola. – Magari ti aiuta a crepare.

– Perché non evitate di comportarvi come ciò che siete? – Il richiamo all’ordine si fa strada dal buio. I quattro si irrigidiscono, arretrano. – Reietti dell’umanità, veleno della terra.

Il quinto uomo emerge da un altro condotto nel sottosuolo. Nessuno nella cripta si è nemmeno reso conto che quel condotto esisteva. Un uomo molto giovane, molto bello. Passa lo sguardo da uno all’altro. Occhi come biglie di ossidiana. Occhi morti.

– Conoscete il mio nome?

Carmelo Nitto china impercettibilmente il capo. Segno di rispetto, di sottomissione. – Don Aprà…

– Bravo, Capitano Nitto, molto bravo – Pierfrancesco Salvatore Aprà sorride, sadismo allo stato puro. – Li hai proprio fatti, i tuoi compitini a casa.

Nitto non parla. Nessuno parla. Non di fronte al capo del mandamento mafioso di Corleone. Non di fronte al nuovo Capo dei Capi dell’intera mafia.

– Tutti voi li avete fatti. – Aprà si ferma al centro della cripta. – In tutti i sensi.

 

 

OTTO

– Ehi… Che cazzo è quello?

Gromovic si irrigidì sul sedile di guida del furgone Mercedes-Totyota. Là fuori, tra asfalto viscido e cemento invaso dal lichene, fari alogeni stavano falciando la notte.

Nitto finì di accendersi il terzo mezzo toscano della serata. Espirò fumo denso, fetido. L’abitacolo del furgone ne era ammorbato.

– A te che ti sembra, mugiko?

L’ibrido metallico rallentò fino ad arrestarsi tra fasci di luci crude. C’era un serbatoio a sezione ellittica saldato alle travi del telaio grosse il doppio di rotaie.

– Una cisterna – Gromovic si rilassò. – Una cisterna del cazzo…

Sull’acciaio convesso fiammeggiava una scritta in day-glo purpureo:

METAL PURGE, Inc.

A Subsidiary of Guttschakl-Yutani Corp.

 

– È un mondo del cazzo, mugiko. – Nitto masticò l’estremità del sigaro. – Non potrà mai essere niente di diverso.

 

 

SETTE

Il giovane poliziotto sputò catarro sul marciapiede. Alle sue spalle, il rombo di un motore rimbalzò sotto il portale della Questura.

La motocicletta gli sfilò accanto. Roba da enduro pesante: Aprilia Caponord Mark-XIII, mille centimetri cubici, due cilindri a V trasversa. Il poliziotto si portò la mano alla visiera del berretto in un rigido saluto militare.

L’uomo in sella alla moto gli rispose con un cenno del capo. Un uomo senza volto, chiuso in un’armatura di polimeri, resine e cuoio. Casco Arai, giacca Belstaff, guanti di Gore-Tex, scarponi Altama.

Il poliziotto premette il pulsante di attivazione del semaforo d’uscita, bloccando il transito su Fatebenefratelli. Così diceva il regolamento. Anche se non c’era nessun transito da bloccare.

 

 

– Eccolo! – Letizia Tanzi si irrigidì. – Aprà! Ci siamo! Sta uscendo adesso…

– Niente nomi sull’alta frequenza!

Rashid accese il motore della BMW. I sei cilindri ruggirono sui bassi.

Sul lato opposto di via Fatebenefratelli i pneumatici della Caponord trovarono aderenza. La moto emerse dall’antro della Questura. Svoltò nella pioggia acida.

Il semaforo del portale della Questura cessò di lampeggiare. Tossendo, il poliziotto di guardia tornò a ritirarsi nell’androne.

Non notò la BMW nera staccarsi dal marciapiede opposto a fari spenti. Non la vide immettersi nella scia della Caponord.

 

 

SEI

– Siete qui per un’unica ragione. – Don Pierfrancesco Aprà tira fuori una sigaretta da un portasigarette d’oro massiccio. – Unità d’intenti.

Accende con un Dupont, anche quello d’oro massiccio. Mette una mano sulla spalla di Nitto, un gesto distratto, quasi paterno.

– Prendiamo il Capitano Carmelo Nitto, pilastro dei Carabinieri. Uomo tutto d’un pezzo, il nostro prode ufficiale. Tutto casa, chiesa, Arma Benemerita… – Aprà sorride di nuovo. – … e ragazzini sotto gli otto anni di età. Costa parecchio, quel vizietto. Per cui il nostro eroe si mette a vendere agli uomini d’onore i fascicoli più riservati della Direzione Investigativa Antimafia. Così i cowboys buoni cominciano a crepare. Pentiti, infami, giudici, poliziotti, benemeriti colleghi.

Nitto resta cristallizzato.

– Per un po’ al valoroso Capitano Nitto dice anche bene. – Aprà continua col sermone, predicatore da suburra per una congregazione di reietti. – Buste gonfie, coiti anali e cadaveri eccellenti alla grande. Ma a un certo punto il festino finisce e qualcuno inchioda il nostro eroe benemerito contro un muro. Quanto ti hanno dato, prode capitano? Dieci anni? O sono venti? O no, non tu, tu ti fai tutto ai domiciliari, o sbaglio?

Nessuna risposta.

– Ma in fondo non c’è problema, non qui nel Malpaese dei balocchi crudeli. La società è una farsa grottesca, la politica è un baraccone dei fenomeni viventi, la giustizia è cent’anni di turpitudine. Il Malpaese ha bisogno di una purga! Ma nell’attesa dell’enteroclisma terminale… – Aprà si volta lentamente – … il partito armato è un trionfo da prime pagine. – Adesso è davanti a Letizia Tanzi. – Giusto o no, Labbro d’Oro?

Letizia continua a fissare il nulla.

– Quanti ne hai fatti fuori di quegli scioperanti con la tua bombetta al fosforo incendiario, donna Letizia? Trentasei? O magari cinquantasei?

– Erano comunisti… – la voce di Letizia è un sibilo. – Luridi comunisti!

– Sono dappertutto, questi comunisti. Lo dice sempre il mio ministro preferito. – Aprà giocherella con il Dupont. – E il KGB  gli passa ancora lo stipendio. Peccato che anche i bei sogni svastiche e razza eletta finiscono in fogna. Qualcuno annienta la tua orgogliosa cellula nazi. Che tristezza, Labbro d’Oro. I tuoi camerati? Polvere nel vento. E tu? Costretta a strisciare assieme ai topi di fogna. Per quanto ancora durerà la tua latitanza, donna Letizia, prima che qualcuno venga a schiacciarti come uno scarafaggio?

Letizia non risponde. Aprà le soffia fumo di Marlboro in faccia. Si gira di nuovo. Verso Achmed Muhammad Rashid.

– La tua conta in quella sinagoga invece quant’è, santo Imam?

– Sono ventidue i giudei infedeli che ho punito! Ventidue! – Rashid non abbassa lo sguardo, non arretra da Aprà. – E altri ne punirò! Molti altri…

– Sempreché prima qualcuno non ti faccia scoppiare la tua testa di stracci. Nello stesso modo in cui quel qualcuno ha fatto con Yassir Zawari, tuo secondo in comando. E come ha fatto con Fatma Abdallah, tua concubina tossica. O sbaglio, sant’uomo?

Rashid questa volta non risponde.

– Triste fine, povera Fatma. Forse però non doveva tirare fuori quella Beretta da 9mm. Oh, beh: Inshallah! Comunque, per grazia di Allah, dio, Yaweh e tutta l’allegra brigata nel più alto dei cieli… – Aprà fa un passo di lato –  … di tossici c’è una creazione pressoché continua. E tu questo lo sai meglio di chiunque altro, o sbaglio, signor Gromovic?

Ante Gromovic ha le labbra secche come una pietraia.

– Com’era verde il nuovo tuo Kosova democratico, signor Gromovic. Com’era rossa la tua ex-banda di tagliagole dell’UCK. E com’era bianca l’eroina d’Aghanistan che ti passava la mafia cecena. A quintali interi ne facevi arrivare qui nel nord. Solo che poi qualcuno non ha gradito che tu tagliassi la roba con tutto quel cianuro. Qualcuno si era stancato di raschiare cadaveri dai marcipiedi. Così quel qualcuno ha bruciato la tua polverina bianca, ha bruciato la tua cosca, ha bruciato i tuoi fornitori. Quel qualcuno continua a cercarti. Per bruciare anche te.

Gromovic inghiotte duro. Non parla. Nemmeno gli altri parlano.

– Una sola domanda, Don Aprà. – Alla fine è Letizia Tanzi a osare. – A te, a te personalmente, quel qualcuno che cosa ha fatto?

– Ha assassinato un uomo d’onore. A tradimento. – Aprà non si volta a guardarla. – Ha ucciso Carmine, mio fratello.

Da qualche parte arriva lo stillicidio da una valvola che perde. Impatti nelle tenebre, simili al ritmo di un metronomo della demolizione.

– Come dicevo, unità d’intenti. I vostri… – Aprà torna a osservarli uno dopo l’altro. – E il mio.

Anche loro lo osservano. Ora sanno perché sono stati chiamati. Sanno che cosa vuole il Capo dei Capi.

– Quel qualcuno deve morire.

 

 

CINQUE

Il vento spinse turbini di pioggia acida a flagellare il casco integrale.

Qualcuno in sella alla Caponord si passò la mano destra guantata sul visore. Nel riportarla sul manubrio la fece scivolare sul rigonfiamento sotto la giubba. La gibbosità della fondina di nylon ad alto impatto. Con dentro una Glock calibro 45. Quel qualcuno era autorizzato a portarla. Ed era autorizzato a usarla.

Calarno. Andrea Bruno Calarno, Commissario Capo, Squadra Omicidi. Cavaliere errante delle taighe dei veleni.

Qualcuno.

 

 

QUATTRO

Ante Gromovic e Carmelo Nitto continuarono a tenere d’occhio il camion.

Metal purge – Gromovic stava digrignando i denti.

– Vuole dire purga metallica – precisò Nitto.

– Lo so anch’io che cosa cazzo vuole dire.

La pioggia distorceva le prospettive, cancellava i colori. Tutto era sfumature metalliche. Non aveva importanza. Non c’era comunque molto da vedere su quella piazza.

Un disco di asfalto e cemento sormontato dalla duna artificiale di una delle circonvallazioni, assediato da palazzi inerti. Era esistita erba sul pendio della duna. Adesso rimaneva solo terra sterile, disseminata da siringhe ancora sporche di sangue. I due tunnel sotto la circonvallazione erano antri pieni di crepe e di lichene, affrescati da graffiti osceni.

C’erano targhe di marmo corroso a lato dei portali dei tunnel. Le lettere del nome del posto, colate da strisce nerastre simili a fluidi necrotici, erano leggibili a stento.

Piazza Carbonari.

Il camion si era fermato poco oltre l’imboccatura del tunnel nord. Il motore fu spento in una raffica di schiocchi del sistema ad aria compressa. Le portiere della cabina di acciaio e cristalli corazzati non si aprirono. Nessuno scese, nessuno apparve.

– Ma che cazzo fanno? – Gromovic serrò la mandibola. – Perché non le svuotano, le fogne del cazzo?

– Che ti fotte, mugiko? – Nitto tossì nel fumo del mezzo toscano. – Le fogne sono fogne. Lasciale perdere e basta.

I fari alogeni si spensero. Gromovic chiuse gli occhi, li riaprì. Il camion della purga metallica era una massa di un nero assoluto nella pioggia acida.

 

 

TRE

La Caponord ruggì nella pioggia.

Percorse via Melchiorre Gioia, canyon urbano vuoto, scavato tra edifici simili a lapidi.

Pierfrancesco Aprà tenne la Porsche Carrera 4S almeno duecento metri più indietro della motocicletta. Aveva agganciato Calarno all’incrocio con viale della Liberazione. Sapeva dove stava andando. Dove ogni uomo va dopo le tre del mattino.

A casa.

– Ho il bersaglio – Aprà parlò nel microfono digitale del Nokia. – Gruppo Uno: deviate sul campo di tiro conclusivo.

Altri duecento metri più indietro, la BMW di Rashid e Tanzi svoltò duramente a sinistra in via Luigi Galvani.

– Gruppo Due: tenete la posizione.

– Confermato – era Nitto, la voce rauca, stridente. Troppi mezzi toscani fetidi.

– Tempo al contatto, non oltre cinque minuti. Avvertite al contatto visivo.

– Confermato.

Aprà si rilassò contro lo schienale di pelle. La Caponord continuò ad avanzare sull’asfalto. Il grosso pneumatico posteriore tracciò una scia evanescente di acqua disintegrata.

 

 

DUE

Il faro doppio fiammeggiò sulla sommità della duna di cemento armato della piazza.

– Bingo, figlio di puttana… – Ante Gromovic strappò la Beretta 9mm dalla fondina ascellare. – Ci siamo!

– Ha svoltato dal viale – confermò Carmelo Nitto.

La Caponord discese la corsia ricurva fino al livello della piazza. Passò in tromba oltre il furgone Mercedes, imboccò il tunnel sud. Alogene livide si riflessero sugli scarichi di acciaio.

– Tenete la posizione. – Forse c’era addirittura un’emozione umana nel tono di Don Pierfrancesco Aprà. – Sessanta secondi!

– Ci siamo anche noi! – Tanzi, la sua voce che gocciolava voglia di uccidere.

– Allah Akbar! – Rashid afferrò le armi automatiche dal sedile sposteriore.

La BMW apparve da una delle strade che convergevano nella piazza. Seguì la moto sotto il tunnel sud. Uscì nella pioggia dall’altra parte.

– Nessuno di voi si muova. – Aprà guidò la Porsche a scendere scese verso piazza Carbonari, i sei cilindri raffreddati ad aria urlarono nel buio. – Aspettate che il bersaglio sia fermo.

Tre quarti di giro della piazza. La Caponord si infilò sotto il tunnel nord.

– È dentro il tunnel – sibilò Tanzi. – Dieci secondi!…

Rashid e Tanzi la osservarono svanire dietro la massa di un camion cisterna.

Oltre il tunnel, Gromovic e Nitto aprirono le portiere dl furgone. Oltre il tunnel, Aprà fermò la Porsche a ridosso del tracciato ferroviario. Fu fuori dell’abitacolo.

La Caponord non riemerse dal tunnel.

Del fascio del faro doppio nessuna traccia.

Il rombo del motore svanì, semplicemente svanì. Echi distorti si dispersero contro il cemento. Anch’essi svanirono.

Oltre il tunnel apparve la BMW. Solo la BMW. Niente Caponord. La BMW inchiodò i freni, si arrestò in derapata sulla strada deserta.

– Non è possibile… – Aprà avanzò nella pioggia, Sig-Sauer 9mm in pugno.

Gromovic e Nitto uscirono dal furgone, anche loro con le armi in pugno.

Rashid e Tanzi schizzarono fuori dalla BMW. Gocce di acqua inquinata colarono sull’acciaio brunito delle loro pistole-mitragliatrici MAC-10.

Furono cinque ombre immobili, circondate da ombre molto più vaste, molto più incombenti.

– Questo non ha senso. – Aprà scrutò nel tunnel, al di là del camion Metal Purge. Niente moto, niente Calarno. Solo alogene grigiastre e graffiti osceni. – Nessun senso…

 

 

UNO

Luce.

Accecante, purissima.

I fari del camion della purga metallica. Investì le cinque ombre. Le stagliò come sagome sacrificali in un poligono di tiro per demoni.

Aprà allungò una mano. Forse stava cercando di proteggersi gli occhi. O forse di afferrare la luce. Da qualche parte nel bianco assoluto qualcosa frusciò. Un suono come di foglie morte agitate dal un giro di vento.

Il torace di Carmelo Nitto, ex-capitano dell’Arma Benemerita, pedofilo e talpa della mafia, andò in eruzione. Tessuti viventi squarciati, ossa sbriciolate, sangue in emulsione. Nitto andò giù scalciando, correnti di spasmo terminale lungo i nervi già morti.

Letizia Rosaria Tanzi, terrorista neonazista, condannata in contumacia a diciannove ergastoli per strage, aprì la bocca per urlare. Il proiettile ad alta velocità si aprì la strada esattamente al centro del suo labbro leporino. Gli altri cinque le scoperchiarono il cranio, cancellarono ogni ricordo della sua faccia.

Ante Gromovic, assassino, stupratore, grossista di eroina tagliata al cianuro, non aprì la bocca. Non ne abbe il tempo. Tiro incrociato multiplo lo falciò al petto e alla gola. Otto, quattordici, venti impatti pressochè simultanei. L’ondata rossa schizzò fino ai graffiti osceni del tunnel.

La kefiah di Achmed Muhammad Rashid, integralista islamico, terrorista pluriomicida, alfiere della Jihad, si gonfiò ed esplose. Anche la testa che stava dentro la kefiah si gonfiò ed esplose. Un geyser vorticante, gocciolante di materia purpurea.

Piefrancesco Aprà, uomo di panza, torturatore, assassino, mandante di assassini, capo del Clan dei Corleonesi, Capo dei Caoid ella mafia, riuscì addirittura a sollevare la pistola. Tre hollow-point lo centrarono un palmo sotto lo sterno. All’impatto, le punte al magnesio-alluminio si aprirono ad artiglio. Scavarono una galleria di devastazione da una parte all’altra del suo corpo.

Aprà cadde in ginocchio sull’asfalto viscido di pioggia inquinata, allagato di sangue. Un quarto hollow-point venne a scoppiargli sotto la cintura, squarciando viscere, aprendo vascolarizzazione primaria.

La luce si spense.

Le tenebre tornarono.

 

 

ZERO

Il Capo dei Capi giaceva nel sangue che ruscellava verso gli scarichi delle fogne.

I suoi occhi erano fissi sulll’ibrido metallico.

Altre ombre. Molte ombre.

Avanzarono in un silenzio assoluto, simili fantasmi un incubo distorto. Una legione di fantasmi che reggevano armi d’assalto munite di grossi silenziatori.

La legione si frazionò. I cadaveri pieni di piombo, Nitto, Gromovic, Tanzi, Rashid, furono sollevati dall’asfalto e trasportati verso il camion.

– Hai davvero creduto che non vedessi, picciotto?

Venne a incombere su di lui. Glock 45 nel pugno guantato. Silenziatore Albrecht-Mark IV. Proiettili hollow-point Black Talon.

Era l’uomo da abbattere. Andrea Calarno.

Qualcuno.

Allontanò con un calcio la Sig-Sauer dalla mano arrossata di Aprà. Sedette sul talloni, tenendosi a distanza del sangue.

– Hai davvero creduto che non ascoltassi?

Calarno allungò la sinistra verso la testa di Aprà. Premette un pulsante sull’oggetto che aveva nel palmo.

– … non c’è problema, non qui nel Malpaese dei balocchi crudeli…

Aprà tossì una boccata rossa con dentro grumi indefinibili.

– … La società è una farsa grottesca, la politica è un baraccone dei fenomeni viventi…

Nella cisterna che torreggiava davanti al tunnel, portelli con la scritta Metal Purge furono aperti. Un qualche motore ruggì sui bassi.

– … la giustizia è cent’anni di turpitudine

Organi meccanici si misero in movimento. Oggetti vennero gettati dentro fauci d’acciaio.

– … il Malpaese ha bisogno di una purga!

No, non oggetti. Corpi.

Corpi!

– Nel Malpaese dei balocchi crudeli tutti hanno tutto quello che vogliono. – Calarno spense il registratore tascabile, si erse nella pioggia acida. – Tutti quanti. – Guardò verso le ombre che scaricavano i cadaveri all’interno del camion Metal Purge. – Vittime e carnefici. E le vittime, picciotto Aprà, sono sempre più numerose, molto più numerose dei carnefici.

Ombre circondarono Pierfrancesco Aprà. Sollevarono il suo corpo dall’asfalto. Ignorarono il sangue che continuava a colare da tutte le parti.

– Tu invocavi una purga, picciotto Aprà. Ora l’avrai.

Il Capo dei Capi venne portato verso i vorticanti, gocciolanti ingranaggi d’acciaio.

– Purga metallica.

 

 

© TEA – Il racconto è apparso sull’antologia Hellgate (TEA, 2009).