Giocaregiocandogioco – L’humor bizzarro – di Gabriella Landini

Il corpo, il movimento, parlare, cantare, danzare, gesto, incanto…

Il gioco è nell’atto, le sue condizioni si danno nel corpo-parola. Il gioco si situa nell’illusione delle immagini, nell’incanto del fare. Inafferrabile la sua scaturigine. Il gioco, originario e istintivo, è imprescindibile dal vivere, ci accompagna dal primo vagito fino all’esalazione dell’ultimo respiro. Indipendente dalle circostanze fauste o infauste del nostro destino.

Giocare con le parole, con i nomi, con il corpo, con e nel ritmo, giocare con l’amore, con l’odio, con l’ambiente, è il piacere del superfluo assoluto, implica libertà, indipendenza, violazione, dimenticanza, umorismo, witz, riso.

Il gioco si gioca nell’attimo. Credere che il gioco realizzi l’oggetto del suo giocare, o meglio possa produrne la rappresentazione materiale, è l’abbaglio  pretestuale di ogni gioco che rinvii a se stesso come finzione di afferrabilità, per trovarsi ad essere sempre altro e differente. Infatti, il balocco in quanto rappresentazione in forma di feticcio del giocare è destinato, nelle mani del saggio pargoletto, alla distruzione, affinché il far giocando rimanga inarrestabile. Mai, l’inerte, l’oggetto rappresentato, potrà racchiudere in sé (per quanto si continui a sostenere il divieto e  la prescrizione educativa ad havere objetti da manipolare, da esibire, da possedere, da perdere) l’appagamento o potrà essere l’obiettivo del desiderio. Il desiderio in quanto funzionamento inesauribile inventa il gioco e le sue esche, ma non è disposto ad accontentarsi di ninnoli, tranne inesorabilmente intristirsi e annoiarsi. Il desiderio è tale per l’insituabilità dell’oggetto.

Piacere, diletto, spasso, ludo, trastullo, divertimento, svago, intervallo, festa, sollazzo, ricreazione, gioia, ridere, pace, quiete, letizia, felicità, abbandono, dimenticanza, ozio, aion, ritmo, incontro…

L’atto trova il suo oggetto per lasciarlo, lo inventa di volta in volta, in modo casuale, perlomeno aperto all’eventualità di incontrare altro, il sasso, la nuvola, le proprie dita, la mano degli altri, l’ilarità del  niente, la corsa, il respiro. Tutto l’irregimentamento del gioco ne stabilisce spazi, tempi, periodi della vita, cronologie, apprendistato, insegnamento. Il gioco impara se stesso, spesso per non restare memore, per essere dimenticato, per farci dimenticare, per non sapere chi siamo. Non di meno per quanto riguarda gli amorosi diletti.

I lazzi amorosi sono giochi, comportano intrighi, tresche, intrecci, incontri, lusinghe, seduzioni, lontananze, in cui la posta è il piacere, l’appagamento, la gioia, l’allegria. Ma non va da sé che i tranelli, le celie, gli azzardi delle relazioni amorose ed erotiche siano scevri da inquietudine, oscurità, violazione, ambiguità, intrisi come sono di odio e amore. Anzi, questi aspetti enigmatici ne sono i moventi più potenti e al contempo manifestazione di forza. Di sontuoso lusso. Le beffe poetiche di Agostino Belli o di Teofilo Folengo, come di Rabelais o Ariosto, lasciano il pretesto in uno schermo siderale per abbandonarsi al piacere della schermaglia giocosa, invisa, irriverente, mai complice. Un piacere ludico inafferrabile a ogni potere, così altro da essere inviso  alle cortigianerie,  ma nello stesso tempo anche incommensurabilmente incomprensibile alle menti dei parrucconi. Il potere può soltanto afferrare ciò che sta nella codifica delle sue definizioni razionali, Altro rimane fuori portata: la teatralità nella sua forma spontanea.

ADRIANO BANCHIERI, CONTRAPPUNTO BESTIALE ALLA MENTE

 

Prato, cielo, fiume, sasso, albero, neve, sabbia, mare, nuvola, sole, luna, vento, aria, acqua, erba, fiori, frutti, animali, zucche, nocciole, semini, inezia…

Il gioco risente dell’intervallo, dell’altro andamento delle cose. Proprio perché ci riguarda in modo originario fin dall’infanzia, non ha scopi organizzati, piuttosto immediati, anche qualora si tratti di bisogni, come può esserlo andare a caccia o a pesca.

Affermare che si è un albero o un pinguino non cambia molto in un gioco, ma in quel gioco si affina il giocare con ciò che sta intorno. Non che serva per oggi o per domani, perché la condizione è che, appunto, non abbia alcun obbligo di servizio, tranne trovarsi nella disposizione di assoluta combinazione di casualità.

Quando sosteniamo che il gioco è propedeutico all’apprendimento di facoltà specifiche e finalizzate, piuttosto che un’attività aleatoria – la quale affina senza dubbio anche abilità formidabili, ma non sono queste ultime a essere prioritarie –, la cosa si complica non poco, perché un gioco che abbia uno scopo prescrittivo non è più un gioco, e una finalità che abbia come obiettivo il funzionamento di un gioco ne provocherebbe la demolizione. C’è certamente destrezza e allenamento nell’agile arrampicarsi di un fanciullo su un albero, ma la motivazione di quel dispendio di energie ludiche resta imponderabile.

Si dice spesso che il gioco sia una cosa seria.  Si dice anche che chi fa le cose seriamente non gioca, altri si rammaricano di essere stati trattati come un gioco, e altri ancora lamentano che nelle loro relazioni più importanti non giocano.

Il gioco è un ludendo, ed è molto spesso, se non quasi sempre, confuso con il gioco del potere, dove diviene indispensabile applicare una strategia per ottenere un risultato, spesso scontato, e dove il piacere non sta nel gerundivo facendo, ma solo nell’ottenimento del risultato, in qualsiasi modo e con ogni mezzo, a costo della sopraffazione.

Azzardo, destino, sorte, sortita, piega, effetto, fortuna, posta, puntata…

Il gioco si dà nel simultaneo. Non ha oggetto, inventa il pretesto, e non di rado, come nella danza, è puro gesto, destinato a non lasciare tracce se non nella coralità dell’esecuzione medesima o nella memoria dello spettatore. Il gioco risente dell’attimo, dell’istante in cui, nell’azzardo, il dado è tratto e decide di una piega imprevista del destino.

L’azzardo implica il destino, la cifra del dado è ciò che capita in sorte. Che destino nell’azzardo ti viene dato in sorte? Sorte e destino non sono la stessa cosa. Il getto implica il destino – nel getto mi sbilancio verso un destino. Il dado invece, rileva la sorte, gli effetti e la piega che prenderanno le cose. Nell’assenza di volontà e controllo rispetto al risultato. Riguarda il non voler dire niente, l’essere senza propositi. Nell’assenza di intenzioni resta l’azzardo. Il getto, il lancio…

L’azzardo risiede nella pausa, nel silenzio. L’azzardo precede il rischio, ed è una proprietà dell’incontro. Senza l’incontro non c’è azzardo, non c’è partita, non c’è il rischio.
L’azzardo è il contingente. Il ritmo di una filastrocca è costituito da una istantaneità straordinaria, non ha numero, è incalcolabile, si affida solo alla modulazione delle parole. L’azzardo è quando le cose incominciano e debuttano.

La rappresentazione dell’azzardo oggettivato come gioco diviene il gioco d’azzardo, la sua forma gestita e razionale, nel vincolo di una codificabilità degli esiti: il banco vince quasi sempre, fino alla rovina del giocatore. E nell’estrema sfida della roulette russa, la rappresentazione della casualità della morte si trasforma nel caso di morte certa – a chi tocca tocca, vediamo a chi e quando.  Entrambi questi principi preparano culturalmente la mobilitazione alla guerra, intesa come tempo del dominio espresso in festa di popolo: in un assoluto spreco e disprezzo della vita: spreco inteso come lusso e come coraggio.

ORLANDO DI LASSO, ALLALA PIA CALIA

 

Balocco, giocattolo, oggetto, feticcio, gingillo, fantoccio, ninnolo, marionetta, zimbello, fronzolo, monile, scherzo…

Quando il gioco viene rappresentato nel giocattolo, il giocattolo addomestica apparentemente il desiderio, lo incanta fin tanto che l’oggetto manca a se stesso. Quando diviene feticcio, assume un altro valore in cui l’investimento ludico si sposta a livello del valore simbolico del feticcio. La sacralità di cui è investito magicamente il feticcio ne fa un oggetto di potere, con tutti i suoi codici e codicilli.

L’oggetto racchiude in sé l’eterna, riperpetuante illusione che in esso sia fissato qualche cosa, che per mezzo dell’oggetto possa a noi giungere la soddisfazione, o il colmamento del desiderio. Noi crediamo di essere consapevoli del desiderio, crediamo di poter dichiarare esattamente quello che desideriamo, al punto di riuscire ad appartenere a un sistema codificato di desiderata. Un desiderio siffatto non è più nemmeno desiderio. Semplicemente un’ideologia e una credenza, non di rado dottrinaria.

Il desiderio è un funzionamento incessante, non fissabile, che non desidera nulla in particolare, ma che per credenza riteniamo agognare spasmodicamente qualche cosa e che, una volta raggiunto questo benedetto qualche cosa, venga inesorabilmente abbandonato – per l’appunto distrutto. Dunque un desiderio indesiderante. Appena il bambino riceve il balocco, lo getta, per chiedere un altro giocattolo. Desiderio insaziabile? Non esattamente: piuttosto, il nostro dipendere come soggetti dagli oggetti fa sì che questi diventino uno strumento per imparare a rinunciare, a contenere le famose brame, a essere ragionevoli di fronte agli spropositi, a non essere più liberi di ideare, di fare.

L’oggetto sta nell’atto. Sfugge dove viene presentato: un incastro di illusioni, un teatro delle ombre incanta un desiderio che pare volersi dirigere al paese dei balocchi di Pinocchio, per poi condannarsi alla delusione. Nel paese delle rappresentazioni i balocchi hanno un padrone e il baloccario è un allettante specchio di mondo mondino; è un paese che tiranneggia l’infante, che tenta di affermare l’illusione di un gioco che lo appaghi. L’altra faccia – il suo compendio – del mondo dei balocchi è l’orecchio da ciuchino di Pinocchio. Nel teatro dei pupi la distanza tra il burattino, il burattinaio e lo spettatore resta un indifferenziato scambio di ruoli. Sono tutti lì per giocare un gioco di ruoli, in cui desiderio e piacere sono demandati al rifrangersi della propria immagine nello specchio. Nel mondo dei balocchi ci si balocca, ma la scena è già pronta, altro non interviene. Anche se quella scena venisse sovvertita, fosse scombinata, se si trasgredissero le regole costituite e fossero surclassati i permessi, reso illimitato il tempo concesso alla festa, in seguito le combinazioni di quel gioco si ricomporrebbero nella reiterazione del passaggio da funzionale a infunzionale ad altra funzionalità. Molta arte è rimasta intrappolata in questa ideologia, sterilizzando la parte migliore di se stessa, quella fantastica, che riguarda appunto il gioco. Un po’ come quei rivoluzionari che in nome della libertà hanno reso dottrinaria l’apertura, l’insorgere dell’insubordinazione, e dopo avere sovvertito lo stato delle cose sono divenuti golpisti esemplari.

Giostra, lazzo, beffa, buffone, satiro, finzione, quisquiglia, carnevalata, simulazione, scempiaggine, demenziale, celia, intrattenimento, bagattella, burla, allegria, umorismo, comicità, witz, divagazione, scena, recita, falso, mimesi, inganno, illusione, folle…

La gioia, la libertà, il piacere, il gioco della seduzione, se-ducere, attrarre, appunto, un gioco, ma chi vuole piacere agli altri cerca il consenso e non gioca.
Il gioco è un ludere in se stesso, privo di finalità e dunque rivolto principalmente  al dimenticare. Un gioco che sappia come educare si situa già in una metafisica del gioco. Il gioco senza dubbio educa, per effetto involontario.
L’oggetto è sempre altrove e differente a dove presumo di situarlo. L’oggetto resta insituabile, non ha causa prima o finale.
Ma il gioco oggetto, il giocattolo, è anche investito di tutta l’idea che noi abbiamo del dominio dell’oggetto, del possesso dell’oggetto, del furto dell’oggetto, dell’idolatria dell’oggetto, ed è per questo che finiamo per essere soggetti dell’oggetto che vorremmo dominare. Il balocco è proprio il “mio”, “tuo”, “nostro”: impariamo  a governarlo come un piccolo idolo di nostra proprietà che diviene parte integrante del nostro arredo di pensiero. Eppure, un gioco che sia libero resta inafferrabile come le nuvole – è di nessuno, si manifesta in ogni circostanza, e non può nemmeno essere trasgressivo, perché non appartiene alle categorie alle quali ci atteniamo perfino per definire gran parte dei giochi (per grandi e piccini) che ci compriamo nel corso dell’esistenza. Quei giochi, però, sono molto significativi perché mi definiscono: ricco, povero, intelligente stupido, etc.  Devo possederli perché in essi magicamente è contenuta la mia possibilità di modificare il destino. Ciascuno di noi possiede oggetti da cui dipende giocando. Tranne l’arte, che spossessa l’oggetto a favore del gioco. L’arte procede da una scena irrappresentabile e inscambiabile, tuttavia sempre in trasformazione. L’arte, come il gioco, non si impara una volta per tutte: l’arte è una pratica del gioco.

 

Competizioni, partita, mossa, azione, gara, lasco, destrezza, numero, ordine, puntata, bersaglio, sport, giostre, tornei, strategia, vincere, perdere…

Il gioco non asseconda la predestinazione, l’ordine incasellato delle caste e delle gerarchie in forza delle quali una società si organizza. Infatti, il gioco del potere è un gioco di società nel quale l’imprevisto è gestito quasi totalmente, tranne la sorpresa di scoprire chi vincerà o chi perderà dentro uno schema preordinato. L’invenzione, la dimenticanza, la vaghezza, la vacuità, l’ozio, il non finalizzato, farebbero fallire un gioco di società, nel quale viene richiesta prestazione, gara, competizione, concentrazione, furbizia…
Nessuna carta è vincente, impossibile anteporre il risultato alla vittoria.

I corteggiamenti amorosi sono ludici, comportano un gioco, ma la seduzione può definirsi un gioco a vincere o un gioco a perdere? Vincita o perdita  possono far parte di un gioco? Quale sarebbe l’oggetto rappresentato dalla vincita o dalla perdita?

Ecco che la posta in gioco fa del gioco una gara con uno scopo, ma in quello scopo il vincente sarà solo l’altra faccia del perdente, perché chi gioca non può né vincere né perdere, tranne non giocare affatto. Vincere e perdere in un ludo significa trovarsi nell’ironia della sorte. Allora tutti quelli che credono di vincere o di perdere che cosa stanno facendo? Stanno giocando? Certamente sì, ma non a quello a cui credono di giocare, stanno bensì giocando al teatro delle ombre: lottano tentando di afferrare l’ombra fuori dalla grotta di Platone.