Amaya, Il gioco del mondo – di Ximena Rodriguez Bradford

Il clown è solo. Vestito di tutto punto, con il suo giubbino e il suo berretto. Ma il costume non gli serve più. La scena ormai non è che un ammasso di tenebra informe. Uno a uno, i riflettori si spengono. Il pubblico ha già tolto il disturbo. L’ha visto pigiarsi, accalcarsi come sempre davanti all’uscita principale. Come sempre, come ogni giorno. Hanno già dimenticato le risate. La fatica, le gag, il sudore. Hanno dimenticato anche lui. La pecora nera, la bestia rara del circo. Né acrobata né fiera, né domatore né ballerina. Un buono a nulla, un povero diavolo che venderebbe anche l’anima, pur di mendicare una risata.
Fra poco si leverà il trucco. Davanti allo specchio, sarà ancora più solo. Ripenserà al suo numero. Lentamente, ricomporrà gli istanti. I volti, gli echi, gli schiamazzi. L’incredulo stupore sulla faccia di quel bambino. Il suo sorriso soffocato tra le lacrime. In fondo, si dirà, la vita è soltanto un circo. La verità è che siamo tutti soli. L’unica cosa, la sola che conti, è continuare a ridere.

 

 

Ci sono momenti nella vita. Qualcosa ti chiama, e non sapresti dire. Eppure è così semplice. Era buio, e poi luce. Un tremito del labbro che era crepa, e poi ala, e poi pietra, e ora è soltanto maschera. Perfino la misera arena che calpesti, adesso, sembra velluto. Il pubblico è un fantasma che ti guarda. Nessuno vedrà mai la tua lacrima. Tu sei il suo pasto. Il suo pasto nudo.

 

Sono la fame, la forza, il contagio. Sono l’ombra che genera corpi, sono il corpo che genera il mondo. Sono l’acrobata dell’ala triste, sono l’amazzone senza cavallo, la principessa dalle mille bocche, il primo nano che ha domato l’orso. Sono la stella, sono la danza, sono il trapezio che non può crollare. Sono la pece, la carne, la fune, il piede teso sopra la vertigine. Sono il maestro di un tenero inganno, l’umile servo di un’illusione: quella di un mondo che gioca col nulla e sa che quel nulla è tutta la vita.

 

Luci e ombre. L’equilibrio è un gioco precario. Un gioco serio come la vita, come l’azzardo. Fisso un punto al di là del mio piede. Un punto vuoto tra la sabbia e il fondale. Quel punto è la mia ancora. Sono albero, boa, abisso. Una nave in rada nel fresco fiato del mattino. All’orizzonte intuisco una macchia rossa. Tremula, soffice come una chioma di sirena. Viva, fresca, inquietante come un fiotto di sangue. Mi afferro al mio punto, non lo lascio andare per nessun motivo. Le cose, viste di lato, possono rivelare aspetti sorprendenti. La chioma da qui non è che un papavero. Un lungo oblio del mio piede stanco, uno sbuffo d’aurora sull’albero maestro.

 

© Fabio Amaya

Testo di Ximena Rodriguez Bradford

Fabio Amaya è un pittore colombiano radicato in Italia dal 1975. Fra le sue personali più recenti segnaliamo l’antologica Hay otro  presso la Fondazione Mudima di Milano (2009) e la mostra di disegni inaugurata presso il Centro de Arte Moderno di Madrid (2011) in occasione dell’uscita del libro d’arte Mínima mitológica (testi di R. Campra, Del Centro editores, Madrid 2011). Docente di Letteratura ispanoamericana presso l’Università di Bergamo, all’attività di pittore e incisore affianca da sempre quella di saggista, scrittore e consulente editoriale, esperienza che lo ha visto tra i fondatori del Laboratorio Borges per conto della casa editrice Adelphi in vista della pubblicazione dell’opera completa dello scrittore argentino.

Le chine qui pubblicate fanno parte degli studi per la serie Clown, presentata alla Biennale di Venezia del 1981.