Andiamo in macchina – di Francesco Saba Sardi

Immagine di B.Deum tratta da Internauta n. 95, Prologo, 1991

O, più esattamente, cambiamo macchina. Nessuno può infatti negare che, da circa diecimila anni, viviamo, se non proprio tutti, almeno moltissimi, nelle macchine. Con le macchine, tramite le macchine. Che le macchine noi le imitiamo, ci servono da modello, da esempio, da metro di misura. Che siamo i nodi di una rete di comunicazione resa possibile da macchine (telefoni, telegrafi, cellulari eccetera).
Ci sono macchine che fabbricano oggetti che a loro volta sono macchine (automobili, PC, stampanti, cellulari, rotative…), macchine che ci permettono di muoverci da un luogo a un altro (aerei, razzi interplanetari, treni, nastri trasportatori, gru, eccetera). L’elenco è sterminato e fin troppo ovvio.
Solo in apparenza, nell’elenco non entrano altri oggetti senza i quali non si costruiscono le macchine, e sono quelli che insegnano a progettarle, a manovrarle, a distruggerle. Macchine sono infatti le bombe, macchine i missili terra-aria, mare-terra, aria-terra, i cannoni, le mitragliatici. Macchine i geroglifici egizi, i caratteri cuneiformi di Babilonia. Macchine i segnali stradali, i cartelli pubblicitari, macchine le scuole, le università, le caserme, i tribunali, gli ospedali… macchine le innumerevoli macchine per scrivere, stampare, imprimere, correggere.
Non mancano tuttavia profeti che pronunciano pronostici infausti. Il libro elettronico, dicono costoro, minaccerebbe la parola scritta, il libro con le pagine da leggere, metterebbe in pericolo lo stesso impulso alla lettura. Rischierebbe di rendere impossibile le comunicazioni tra i singoli, le nazioni, le etnie i quartieri, le città.
Dice il profeta di malaugurio: i giornali e i libri scompariranno. Gli uomini comunicheranno solo verbalmente, o per mezzo di immagini e suoni, ma quanto non andrà perduto!
Risponde il prudente: che ha visto scomparire Roma, l’impero incaico, la Russia sovietica e tante altre formazioni che avevano a fondamento la scrittura. Il prudente che sa che l’invenzione della scrittura è recente (solo circa seimila anni fa) e che prima gli uomini comunicavano – esattamente come i potenziali discendenti – mediante parole, segni, manuali, leggendo i movimenti delle labbra (come oggi i muti), tracciando immagini sulle pareti di grotte, sul terreno, mediante cenni, canti, suoni, anche solo grugniti. Sempreché sia lecito trarre conclusioni dai comportamenti dagli odierni primitivi (ormai pochissimi e sempre più minacciati di estinzione) per attribuirli ai nostri progenitori paleo e neolitici, sta di fatto che non c’è, ed evidentemente non c’è mai stato gruppo umano, clan, tribù, etnia, società, che non avesse rapporti con gruppi vicini e lontani. Gli interpreti, i traduttori, gli scambiatori di notizie, i messaggeri, gli araldi, sono sempre esistiti. Le informazioni, i vaghi accenni, i sottintesi, le leggende, le speranze, le emozioni, i simboli si sono sempre trasmessi e scambiati.
Lo ammetto. È difficile anche solo supporre che anche senza i grafismi che oggi sembrano diventati gli indispensabili presupposti della lettura, si possano trasmettere idee, concetti, allusioni, sottintesi, locuzioni di alto livello culturale, emozionali, evocative, e mille possibili sottintesi. I poeti, come faranno a esprimersi? Risposta: i griot, i cantastorie nomadi dell’Africa occidentale, continuano ancora oggi a narrare le imprese e le vicende dei grandi e dei piccoli. Gli aedi greci non usavano la scrittura per celebrare gli eroi della guerra di Troia.
Replica: ma la macchina elettronica, potrà produrre, generare, grandi opere d’arte? Può diventare art ambassador? Be’, già oggi gli architetti e i designer comunicano tramite schermi elettronici, e le opere d’arte – pitture, affreschi, sculture, installazioni o quel che è – sono facilmente trasmissibili. Si può educare all’arte e, entro certi limiti, insegnare a fare arte mediante il web. La fotografia, la descrizione verbale, la riproduzione di immagini con vari mezzi, che sempre macchine sono.
Controreplica: ma volete mettere il piacere di toccare, annusare, palpare, sfogliare un libro armati magari di tagliacarte? Di ammirare illustrazioni, approvare o deprecare l’impaginazione, l’uso dei caratteri di stampa, la qualità della carta, l’attendibilità della copertina… insomma, le care abitudini: la consolazione del vecchio arenato nella sua bergère…
In altre parole, diventeremo analfabeti? C’è già chi dice che nelle scuole non si studierà più. Che i libri di testo scompariranno. Che, addirittura, dal momento che anche i numeri sono grafismi, sono scrittura, cesseremo di essere uomini perché non sapremo più contare.
In una mia cronaca di viaggio, intitolata Un altro Brasile, ho riferito di aver scoperto (o forse riscoperto) un gruppo di selvaggi amazzonici che oggi so essere i Cè, nome dato loro da missionari, esploratori, funzionari brasiliani. I Cè non contano neppure fino a dieci. Non contano affatto. Eppure, le dita le hanno. E come fanno a distribuire i pesci o gli animali che pescano o cacciano, e di cui si cibano? Ebbene, se li spartiscono indipendentemente da calcoli e numerazioni. E i decoratori delle grotte cantabriche o del Perigordine conoscevano forse la geometria e i numeri?
Dunque, cambiamo pure macchine. Usiamo, come in questa rivista, i segni imposti dall’elettronica. Qualcosa succederà, come sempre accade ed è accaduto. Ricordandoci che l’alfabetizzazione non è mai stata qualcosa di innato, spontaneo, automatico, ma è stata sempre un’invenzione dettata da concrete esigenze elaborate nel corso dei secoli. Voluta, insomma, dal potere. Un’imposizione. Resta da chiedersi se ha dato felicità o libertà (i pigmei ne fanno a meno e non sono malinconici). E se si può sostituirla, la versione grafica della realtà, senza che comporti danni irreparabili e riduzioni della comunque scarsa libertà concessa agli umani. Nella speranza, soprattutto, che il lupo elettronico e l’agnello carta stampata possano pacificamente mangiare e bere nella stessa ciotola.